La strana storia dei saggi perditempo, seppellitori della Prima, e unica finora, Repubblica Italiana

Giorgio Napolitano, dopo il mezzo golpe che mise in sella Mario Monti, ha deciso che era meglio non decidere. E passare la palla al prossimo presidente della Repubblica, una tecnica dilatoria che nel calcio si chiama melina!

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Come ultimo arrivato al giornalismo, ho molte lacune e qualche privilegio. Sulle lacune i miei quattro lettori mi consentiranno di glissare (mi appellerei al V Emendamento, fossimo davanti a una Corte statunitense), al contrario, vorrei ragionare su uno dei privilegi che sento di avere: quello di non pagare dazio ad alcuno, sotto il profilo editoriale e politico. Io edito me stesso e a me stesso rendo conto.

Epperò faccio incetta delle mie esperienze passate, lavorative e non, per cui sento di poter affermare che la definizione di “Seconda Repubblica” sia in effetti un’invenzione giornalistica, promossa con atteggiamento spesso “pecorile” (ad angolo retto, direi…) verso la cosiddetta politica italiana, ossia quel mostro partitocratico cresciuto in nota spese al contribuente, offeso, vilipeso, spremuto peggio di un limone, sfruttato fino all’osso e poi individuato come colpevole di tutto con artifici e raggiri: popolo evasore fiscale.

Gli scienziati della politica predicano che non c’è differenza, in democrazia, tra società civile e politica, essendo la seconda specchio più o meno fedele della prima. Forse in Italia questo dato andrebbe ricordato con più costanza, perché molto spesso si tende a eliminarlo dal dibattito pubblico. Invece è la chiave di lettura di una crisi che è storica, quindi politica, economica, culturale, industriale ed etica.

Paghiamo lo scotto di una guerra civile che Umberto II di Savoia non volle, accettando un referendum istituzionale falsato da brogli. Amava l’Italia più di molti italiani che voleva il Paese ingabbiato nella morsa sovietica. Altri, invece, si gettarono nelle braccia liberatrici anglo-americane, più vicine ai valori essenziali della maggior parte del popolo (anche di molti militanti nei partiti “democratici”). In fondo, il fascismo era stato un contenitore di tutto. Da Bocca difensore della razza, a Napolitano, a Moravia finanziato dal Minculpop, a Montanelli conservatore critico della bestialità nera, così come di quella rossa.

Il pensiero neo-federalista di Rossi, Colorni e Spinelli emerse dalle secche etiche di una critica feroce al comunismo, grazie allo studio dei federalisti nordamericani, che alla fine del XVIII Secolo seppero trovare la strada dell’unità nella diversità, ma scommettendo sulla comunione dei destini. Il confino a Ventotene (che non fu una vacanza) catalizzò le menti di questi grandi pensatori.

Tuttavia, il passaggio tra il fascismo e la “democrazia” non significò mutamento profondo della struttura del potere, che rimase partito-centrica. Vi fu differenza di numeri, emerse pluripartitismo fasullo, falso perché seduto attorno al totem dell’idea totalizzante del partito/Stato. Non potendo eliminare gli altri, si decise di attendere tempi migliori attraverso la spartizione delle spoglie dello Stato. Sicché la lealtà non si diede all’Italia, ma al partito che interpretava meglio i propri interessi e i propri valori (troppo spesso più mobiliari e immobiliari, che etici, politici). L’appartenenza sulla competenza, la tessera chiave di volta delle fortune professionali a prescindere dalle capacità personali.

Poi, nel 1992/94 non c’è stata una cesura storica e costituzionale tale da rendere giustificabile l’uso della definizione di “Seconda Repubblica”. Non si cambiò la Costituzione del 1948 con un’assemblea costituente, ne si modificò solo una parte (Titolo V) con un colpo di mano e tre voti di scarto. Niente di meno condiviso. Quella del centro-destra fu poi abbattuta dal referendum confermativo, promosso dalla sinistra. Amen.

Siamo perciò in piena Repubblica post-bellica, senza numero ordinale: prima e unica, alla frutta. Il muro divisorio tra i partiti è quello esistente il 26 Aprile 1945, con qualche modificazione estetica, per non far pesare il tempo che corre.

L’inesorabile decorso del tempo mi porta così a riflettere sulle “riforme istituzionali” di cui l’Italia ha bisogno urgente: da multiforme osservatore (prima studente liceale, poi universitario, poi imprenditore, infine editore e giornalista) è un tema di cui sento parlare almeno da 30 anni. Senza che se ne sia venuto a capo. Una vergogna che dovrebbe fare arrossire la stragrande maggioranza dei personaggi politici che continuano a infettare il palcoscenico italiano. In una rete di assistenza reciproca consociativa, da far impallidire perfino il regime nordcoreano, non proprio un esempio di apertura al mondo esterno.

La “diligenza Italia” è assaltata da costoro e da tutti noi che li tolleriamo, che ne abbiamo tratto beneficio, che non siamo riusciti a trarne e non abbiamo mai chiesto il conto del malfatto, prima che del maltolto.

In questa ottica, l’operazione di nomina dei Dieci Saggi, da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è sembrata davvero un’azione dilatoria, messa in piedi per far finta di affrontare un problema, sperando che il fischio di fine partita arrivasse prima possibile. Nel calcio si chiama melina.

Le relazioni dei Diegi Saggi presidenziali sono la dimostrazione che anche personalità di alto profilo e dalla indiscutibile preparazione e intelligenza, in alcune determinate condizioni possono scadere nell’ovvietà, nell’irrilevanza, nella supponenza. Affermazioni lapalissiane con invenzioni originali (la Seconda Corte di Cassazione per i magistrati è la perla nera di questa relazione, ridicolo tentativo di nascondere l’esigenza non più procrastinabile di dividere in modo netto le carriere dei magistrati. A prescindere da Berlusconi, chi se ne frega di Berlusconi!).

Al presidente Napolitano e ai Dieci-Saggi-Dieci è mancato il buon senso spinto dal coraggio: quello di dire in modo chiaro che l’Italia ha bisogno di un’Assemblea Costituente che cambi la nostra Carta fondamentale o la adegui al tempo presente. La contingenza storica che ne giustificò l’adozione, sulla linea del compromesso permanente tra liberismo cristiano e comunismo sovietico in salsa tricolore, non esiste più. Occorre prenderne atto e demolire quel muro che divide ancora la politica italiana, tra puzzoni e unti dell’Etica; tra supposti delinquenti e Depositari della Morale senza-se-e-senza-ma.

Il Paese affronta uno dei momenti più difficili della propria storia unitaria, non siamo ottimisti che possa superarlo in modo altrettanto unitario. Ma da siciliano orgoglioso della cultura meridionale guardo sempre le travi nei miei occhi, prima di rilevare le pagliuzze in quelli altrui. Spezzettare l’Italia sarebbe un insulto al sangue costato per unirla, continuare a gestirla in questo modo è un insulto a chi lotta ogni giorno per il proprio benessere e per quello altrui: in questo ordine, l’unico che può portare progresso. Diffidate da chi si preoccupa solo degli altri. Solo i santi e i poeti. Vedo pochi santi, troppi aedi del potere.

La rivoluzione etica che serve al Paese non può essere affidata ai magistrati inquirenti della Repubblica, ma deve essere promossa dai cittadini, altrimenti questo Paese è prossimo a esalare l’ultimo respiro.

Se non si guarda la realtà come è, non come si vorrebbe fosse, allora l’8 Settembre sarà in confronto una gita fuori porta. Alcuni, però, sembrano scommettere sul bel tempo e già preparano plaid e leccornie per il pic-nic. Dio salvi l’Italia dagli italiani.

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