Europa, forza! Per risolvere la crisi delle istituzioni comunitarie occorre riscoprire le radici del federalismo europeo

L’unione indissolubile dei destini unico antidoto al nazionalismo degli Stati e al revanscismo tedesco. Dalla diplomazia alla democrazia, dall’egemonia alla comune appartenenza. Serve una nuova classe politica, una nuova aristocrazia del sapere, a tutti i livelli di governo

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Il 9 maggio 1950, Robert Schuman pronunciò il famoso discorso da cui si fa iniziare il processo di integrazione europea. Un processo che nacque sulle macerie morali e materiali prodotte dal secondo tempo della lunga guerra civile europea, quella iniziata il 28 luglio del 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Ungheria alla Serbia (conseguenza della scintilla dell’attentato di Sarajevo, costato la vita all’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e alla moglie) e conclusasi la mattina dell’8 maggio del 1945, con l’entrata in vigore della resa incondizionata della Germania agli Alleati.

La data non fu scelta a caso: era il day after di una storia lunga, quella dell’odio franco-tedesco. Mai più la guerra in Europa, era il senso di quei passi compiuti da statisti lungimiranti. Il fine, unire l’Europa sotto uno stesso tetto istituzionale, in modo da sviluppare il più poderoso esperimento geopolitico volontario della storia del Continente. Uomini liberi che decidevano di unirsi e di cancellare secoli di orrore.

L’idea degli Stati Uniti d’Europa era stata elaborata già nel XIX Secolo, ispirando il pensiero di eminenti personalità 20130509-manifesto-ventotenedella politica e della cultura. In sostanza, dopo la II Guerra Mondiale si consolidarono due correnti dell’europeismo: da una parte chi pensava di blindare la pacecon un programma di stretta collaborazione economica e militare, ma non contemplava la prospettiva dell’unione politica; dall’altra i federalisti, riunitisi attorno alle idee espresse con il Manifesto di Ventotene da Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e Eugenio Colorni, ispiratori di una svolta federale senza alcun ulteriore indugio.

Nel 1918 verso la fine della I Guerra Mondiale, Giovanni Agnelli sr., industriale e senatore, e Attilio Cabiati, economista, vollero rendere pubbliche le riflessioni comuni e le discussioni che si facevano da tempo sugli orrori della guerra e alla soluzione che avrebbe garantito la sicurezza alle generazioni future in Europa. Le loro parole rimangono quanto mai attuali e sono profetiche:

«Noi siamo senza esitare di opinione che, ove si voglia effettivamente rendere la guerra in Europa un fenomeno di impossibile ripetizione, una sola è la via aperta, che bisogna avere la franchezza di considerare: la federazione degli Stati europei sotto un potere centrale che li regga e li governi. Ogni altra più attenuata visione non è se non erba trastulla»

Jean Monet, un funzionario poco noto del governo, nominato dal generale de Gaulle a capo del “Piano francese di modernizzazione” nel 1945, ma già consulente dell’amministrazione Roosevelt e tra i padri del “Victory Program” alleato, decisivo per la supremazia militare alleata sulle forze dell’Asse, inspirò l’allora ministro degli esteri Robert Schuman, il quale elaborò un programma concreto di cooperazione funzionale tra alcuni paesi europei attorno al nucleo centrale costituito da Francia e Germania. Questo piano sviluppava le tesi funzionaliste e le poneva a base di un percorso incrementale che avrebbe avuto uno sbocco naturale nell’approdo federale, contando da un lato sulla convenienza del funzionamento della cooperazione, dall’altro dallo sviluppo di élite avanguardiste federali, nate grazie alla libera circolazione delle merci, delle idee e delle persone.

Il 9 maggio 1950, alle ore 16, nel Salon de l’Horloge del Quai d’Orsay, il ministro degli esteri di Charles de Gaulle, Robert Schuman, espose il piano in una discorso, con cui iniziava il processo di integrazione europea. La storia iniziata quel giorno non è ancora stata conclusa, perché l’approdo federale pieno non si è raggiunto.

La crisi potrà trovare nuove soluzioni solo se avremo coraggio di fare i passi richiesti dalla Storia, attraverso l’unione indissolubile dei destini dei popoli e degli Stati dell’Europa. Da questo importante passaggio storico dipende la vita e la prosperità nostra e delle future generazioni.

Nei giorni scorsi è circolato uno studio redatto dall’università di Kiel, commissionato dal governo di Angela Merkel, sugli scenari che si aprirebbero in Europa in termini di difesa e sicurezza, di fronte allo spostamento delle forze statunitensi verso l’Estremo Oriente, visto che l’asse geopolitico mondiale si sta spostando in quella direzione.

A parte il cambio di terminologia in senso aggressivo, il piano raccomanda al governo della Germania una nuova fase di gestione dello strumento militare, per renderlo coerente con il ruolo di gendarme dell’Europa coerente con il ruolo economico del Paese. Di fatto, questo studio propone una politica militarista della Germania che fa pensare a tempi bui della storia europea più recente, i cui segni sono ancora vivi sulla pelle di molte genti.

20130509-parlamento-europeo_770x450Non siamo sorpresi di queste preoccupazioni tedesche. I sistemi complessi vanno regolati e chi è responsabile deve prendere in considerazione gli scenari di vuoti di potere: nessun potere regolatore è sempre peggio di un potere troppo forte.

Tuttavia, siamo convinti che un revanscismo tedesco è l’unica cosa che non serve alla pace in Europa e al progresso dell’integrazione europea, che non può però essere bloccato da progetti e politiche egemoniche foriere di tragedie: i primi ad accorgersene e a capirlo dovrebbero essere proprio i tedeschi.

Serve dunque uno scatto di orgoglio che spinga la classe dirigente europea a trovare la via più breve ed efficace per la firma di un nuovo patto sociale europeo, improntato sul federalismo e sulla sussidiarietà. Occorre trovare lo scatto di fantasia costituzionale per dare all’Europa unita un “Compromesso del Connecticut”, che ridisegni le istituzioni federali attorno a un sistema di pesi e contrappesi efficiente ed efficace, l’unico antidoto alla tirannia. Lo Stato federale europeo sia lo strumento di pace e progresso dei popoli europei a servizio della Pace mondiale, così come insegna il discorso lungimirante di Robert Schuman del 1950.

Sessantatré anni dopo, di integrazione europea si ha sempre più bisogno, ma la diplomazia dei vertici di capi di stato e di governo o dei ministri degli Stati membri, delle eterne contrattazioni, delle strategie interne, delle logiche del “do ut facias”, non serve più. Occorre che l’Unione Europea diventi democratica in tutto il proprio castello istituzionale – dalla più lontana periferia alla sede del governo dell’Unione – che deve essere riformato in senso federale.

Non è facile essere europeisti oggi, in un momento di crisi in cui vengono al pettine i nodi irrisolti di un processo che ha mancato di coraggio per intraprendere la via federale, ma serve chi racconti le cose come stanno, non chi cavalchi le tigri di carta della demagogia o insegua la sconoscenza diffusa, per promuovere antistorici nazionalismi e particolarismi.

Sull’evoluzione delle Tredici Colonie nordamericane in Stato Federale noi europei abbiamo duecentoventisei anni di ritardo. Sarà il caso di darsi una mossa, attraverso un ricambio generale della classe politica, una nuova aristocrazia del sapere che allontani demagoghi e falsi profeti. Lo dobbiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti, lo dobbiamo alla nostra speranza di vivere in un Paese che si senta unito nel comune destino. Questa è la vera rivoluzione progressista per il Vecchio Continente, che può diventare la Nuova Frontiera per la Pace nel mondo.

Se così non avvenisse, non è difficile prevedere che l’erba trastulla di Agnelli e Cabiati assumerebbe sempre di più le forme della gramigna infestante di un nuovo fascismo, anticamera di nuovi orrori.

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