Conflitto israelo-palestinese venti anni dopo. Indebolimento dell’Asse sciita?

Una suggestiva analisi di Aldo Madia che vede un isolamento dell’Iran e un indebolimento dell’Asse sciita. Il destino della Siria segnerà anche il prevalere di un asse o un altro nella regione e la presenza di altre Potenze economiche come i Paesi BRIC. E forse consente una riflessione sugli scenari di moderazione apertisi in Iran

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In Medio Oriente, in continua evoluzione, si osservano due principali eventi, opposti ma in qualche modo sinergici negli effetti.

Il primo – che invia un segnale di discontinuità – è che la guerra alla Siria è stata posposta per l’iniziativa russa, che ha consentito l’adesione del Paese alla “Convenzione sulle armi chimiche” con la promessa della consegna del relativo arsenale nonché l’incontro a Ginevra fra il segretario di Stato USA Kerry e l’omologo russo Lavrov (12 settembre 2013).

Il secondo – in linea con la continuità degli accadimenti degli ultimi due mesi – è dato dall’accelerazione della restaurazione in Egitto del vecchio regime con l’insediamento di Amr Mousa (già capo della Lega Araba e per oltre 10 anni Ministero degli Esteri di Mubarak) a guida della Costituente  e la ventilata candidatura del Generale Sissi alla prossime elezioni presidenziali con il dichiarato appoggio di Ahmed Shafiq (nominato premier da Mubarak pochi giorni prima della destituzione).

Ma i segnali opposti convergono verso la stessa strategia: l’indebolimento della “mezzaluna Sciita” (Iran, Iraq, Siria, Hezb’Allah libanese e movimenti filo-iraniani operanti nella Striscia di Gaza) con annichilimento di Paesi e movimenti referenti o contigui a Teheran, per arrivare all’isolamento dell’Iran.

In Siria, prominenti attori esogeni (U.K., Francia, Turchia, USA, Arabia Saudita, Qatar, Israele) hanno trasformato le iniziali manifestazioni disarmate di masse richiedenti una nuova Costituzione, fine della legislazione d’emergenza, liberazione dei prigionieri politici, rispetto dei diritti civili, equa redistribuzione delle risorse (15 marzo 2011) in insorgenza armata (dall’estero), subito legittimata dalla maggioranza della Comunità Internazionale come legittimo e unico rappresentante dei cittadini siriani e sostenuta con finanziamenti, logistica, armamento nonostante la presenza fra gli insorgenti di formazioni jihadiste di matrice qaedista.

La guerra civile in Siria ha immediatamente contagiato l’Iraq – che è nel completo caos – e Libano la cui componente sciita – il Partito-movimento Hezb’Allah – ha inviato migliaia di militanti in sostegno del Governo alawita (sciita), mentre lo stesso Paese rischia una nuova guerra civile.

La ricaduta degli eventi nella Regione non ha trascurato neppure l’anello debole della componente sciita/filo-sciita, i movimenti (islamici e no) presenti nei “Territori Palestinesi” (TP) e in particolare HAMAS (la cui Direzione Estera è stata insediata a Damasco fino al giugno 2012, quando si è trasferita a Doha) e l’FPLP-CG (Fronte di Liberazione della Palestina-Comando Generale, che conserva gli uffici a Damasco e a Teheran).

Nell’indifferenza generale dei media (salvo pochi, inascoltati analisti), il 13 settembre 2013 ricorreva il 20° anno dalla firma alla Casa Bianca della “Dichiarazione dei Principi”, primo atto dell’Accordo fra Israele e “Palestinian Liberation Organization” (PLO), concluso in segreto a Oslo alcuni mesi prima con l’intesa di arrivare all’accordo definitivo entro 5 anni.

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Il periodo trascorso ha conosciuto una sequela di colloqui infruttuosi intervallati dal mancato accordo di Camp David (luglio 2000), la terribile “Seconda Intifada” delle stragi realizzate dai palestinesi, seguite dalle devastanti campagne ritorsive dei militari israeliani (settembre 2000-autunno 2005, con l’uccisione di quasi mille israeliani e oltre sei mila palestinesi), lo sgombero degli 8.000 coloni israeliani dai 21 insediamenti della Striscia di Gaza (15 – 22 agosto 2005), la divisione tra Gaza e Cisgiordania scaturita dalla vittoria del movimento islamico HAMAS nelle elezioni del gennaio 2006 seguita dallo scontro (giugno 2007) tuttora irrisolto tra gli islamici e FATAH, l’organizzazione laica facente capo al Presidente dell’ “Autorità Nazionale Palestinese” (ANP) Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

Gli eventi successivi hanno declinato un paradigma speculare a quello registrato dopo gli accordi del 1993: collaborazione in materia di sicurezza tra Israele e ANP in Cisgiordania e Gaza; innumerevoli e poco credibili tentativi degli USA di proporre ai contendenti accordi di pace; costruzione di nuove colonie in Cisgiordania e ampliamento di quelle esistenti da parte di Israele; ANP incapace di dialogare con HAMAS, scarsamente efficiente sul piano socio-economico in Cisgiordania, con una corruzione pervasiva, leadership inconcludente con Tel Aviv, Abu Mazen incapace persino di rispondere all’invito del Procuratore della “Corte Penale Internazionale“, Fatou Bom Bensouda, di richiedere – in qualità di Stato Osservatore non membro acquisito il 29 novembre 2012 – l’apertura di un procedimento contro Israele per la politica di colonizzazione e occupazione in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est da 46 anni, istanza che potrebbe ottenere un’importante approvazione nel corso dell’Assemblea Generale dell’ONU (28 settembre 2013).

Il conflitto israelo-palestinese è sensibilmente peggiorato fino a registrare l’attacco israeliano a Gaza (364 kmq, 1,5 milioni di abitanti, confinante a ovest con il mare, a sud con l’Egitto, a nord e nord-est con Israele) da dove fra il 2002 al 2009 sono stati esplosi da HAMAS e altre formazioni terroristiche circa 9.000 razzi verso gli insediamenti israeliani contigui (18 le persone uccise).

Nonostante nel biennio 2006-2007 le incursioni israeliane – secondo dati del quotidiano “Ha’aretz – avessero provocato a Gaza 816 morti (360 i civili), il prosieguo del lancio dei razzi indusse Tel Aviv a lanciare un attacco di più ampio respiro.

Tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 Israele impegnò 232 carri armati, 687 blindati, 43 postazioni da combattimento, 105 elicotteri armati, 221 unità di artiglieria terrestre, 346 mortai, unità navali, 3 satelliti spia e 8.000 soldati. Il bilancio dell’attacco fu di 1.285 vittime (di cui: 895 civili, 111 donne, 280 bambini, 167 poliziotti), 4.336 feriti (di cui 1.133 bambini e 735 donne), distruzione di 2.800 case, 121 officine, 30 moschee, 28 edifici pubblici (tra cui ospedali, scuole e il Quartier Generale dell’Unwra).

Mentre nel quadro dei colloqui attivati dal “Piano di pace israelo-palestinese” proposto (18 luglio 2013) dal segretario di Stato USA John Key Israele avrebbe proposto (6 settembre) uno Stato palestinese con confini temporanei sul 60% della Cisgiordania e il restante a Israele che conserverebbe tutte le colonie (illegali), l’unica intesa funzionante  è il coordinamento (mai sospeso) fra l’IDF (Israel Defence Forces) e l’ANP, con continui raid nei campi profughi a Gerusalemme e in Cisgiordania (5 morti e 50 arrestati in 5 giorni, portando a 15 il numero delle vittime palestinesi dall’inizio del 2013).

Nel frattempo, il “Fondo Monetario Internazionale” (FMI) ha segnalato il drastico calo dei finanziamenti esteri (costituiscono il 75% delle entrate economiche dell’ANP) a causa delle “persistenti restrizioni israeliane” comportanti un’alta disoccupazione con punte del 28% fra i giovani  e un buco di 500 mln USD nel budget governativo.

L’ANP – secondo il FMI – potrebbe non essere in condizione di gestire la finanza pubblica anche per non avere adottato riforme efficaci (taglio di salari dei dipendenti pubblici, pensioni, servizi sanitari). Le politiche di occupazione, inoltre, hanno impoverito il settore privato (industriale e agricolo) costringendo l’ANP a utilizzare il settore pubblico come ammortizzatore sociale (80 mila dipendenti nel 1996 e 153 mila nella sola Cisgiordania).

Dal 1967 a oggi Israele controlla l’economia interna dei Territori Occupati (T.O.), prevalentemente rurale, da un lato con la confisca delle terre agricole e con ostacoli alle imprese private e dall’altro aprendo il mercato del lavoro israeliano ai palestinesi fino ad assorbirne oltre 130 mila, che, dopo la 1° Intifada (dicembre 1987 – estate 1993), si riducono a 30 mila. Il risultato è che l’80% di frutta e verdura proviene da Israele e dalle colonie.

Inoltre, il “Protocollo di Parigi” (1995) siglato da ANP e Israele stabilisce misure draconiane in danno dei palestinesi: la moneta ufficiale nei T.O. è lo shekel, valuta israeliana, per cui i palestinesi subiscono il tasso di inflazione israeliana senza condividerne le stesse condizioni economiche; la gestione dei confini è assegnata a Israele che ne controlla import ed export,  ne riscuote le tasse doganali e ne gestisce il movimento merci imponendo di fatto le attività produttive perché le imprese palestinesi possono esportare in Israele solo prodotti conformi agli standard israeliani; Tel Aviv inoltre raccoglie le tasse dirette e indirette dei palestinesi girandole successivamente all’ANP e ritardandone la consegna (obbligatoria) in dipendenza delle ricorrenti crisi situazionali.

Infine, Israele utilizza le risorse naturali palestinesi – acqua, cave di pietra, appezzamenti agricoli – per cui l’acqua è rivenduta ai palestinesi e le terre confiscate per la costruzione del “Muro di Sicurezza” (dal 2002 a oggi sulle terre palestinesi) e delle colonie diventano insediamenti agricoli gestiti solo dai coloni.

Situazione ancora peggiore attraversa HAMAS, dopo le speranze suscitate dalla tregua (novembre 2012) con Israele – favorita dalla mediazione del Presidente egiziano Morsi – che aveva dato inizio a un’altra vasta operazione nella Striscia di Gaza con un bilancio di 5 morti e 74 feriti fra gli israeliani (oggetto del lancio di 1.600 razzi e di un attentato) e 168 vittime e 1.234 feriti fra i gazawi oltre alla distruzione di abitazioni, moschee, scuole, reti televisive (2 giornalisti uccisi e 6 feriti) e danni per 1,3 mld USD.

Dopo il golpe militare in Egitto (3 luglio 2013), HAMAS si è schierato in favore del Presidente Morsi (arrestato con tutta la direzione del movimento) e del Fratelli Musulmani in rivolta contro i militari e i loro sostenitori, tra i quali anche il partito salafita “Al Nour”. I militari hanno chiuso a tempo indeterminato il valico di Rafah tra Egitto e Gaza, aggravando l’assedio che da cielo, mare e terra ha messo in atto da 7 anni Israele.

Oltre 600 militanti di HAMAS sono entrati – attraverso i tunnel scavati sotto il corridoio “Philadelphy” (16 km) – nel Sinai per affiancare i sostenitori di Morsi e combattere con le formazioni jihadiste locali contro il Governo del golpe.

HAMAS è di nuovo isolata: l’iniziale sostegno – politico/economico – assicurato da Qatar, Paesi del Golfo, Turchia e alcuni Stati Occidentali è stato “girato” alla nuova (più gradita) leadership egiziana; la Siria, abbandonata dal movimento nella primavera 2012, ne ha devastato i residuali uffici a Damasco senza mancare di sottolineare all’Iran il “tradimento” di HAMAS.

Nella Regione la mezzaluna sciita non esiste più. L’Iran è solo.

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