Mafia, processo Mori: errori e opacità, ma sconfessata la teoria della trattativa Stato-mafia

Depositata la corposa motivazione della sentenza della sentenza di assoluzione del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu: smontate le tesi di Massimo Ciancimino, escluso il patto tra funzioari dello Stato e mafia, ma molte critiche all’operato. I giudici trasmettono alla procura gli atti, perché persegue Massimo Ciancimino e Michele Riccio per calunnia aggravata: inaffidabili dichiarazioni, probabilmente false in modo deliberato

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Palermo – I giudici della Quarta Sezione del tribunale di Palermo hanno ieri depositato le motivazioni della sentenza di assoluzione del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu. I giudici di primo grado hanno mosso rilievi sui gravi errori investigativi – a loro avviso – marcando sull’attendismo e su aspetti considerati opachi, ma hanno altresì smontato la tesi del patto con la criminalità, cui sarebbe sceso lo Stato per evitare nuove stragi.

“Non può che ritenersi priva di ogni riscontro e perfino contraddetta da inoppugnabili dati di fatto la affermazione di Massimo Ciancimino, secondo cui, grazie all’accordo concluso con esponenti delle istituzioni, il boss Bernardo Provenzano era al sicuro da ogni ricerca e, ancora all’inizio del secolo corrente, si muoveva liberamente, tanto da recarsi a rendere visita a Vito Ciancimino, ristretto agli arresti domiciliari nella sua abitazione romana”, affermano i giudici palermitani, sconfessando il figlio dell’ex sindaco di Palermo, vito Ciancimino.

Tuttavia, pur affermando l’inattendibilità del superteste portato dalla procura di Palermo e pur escludendo il patto, il collegio critica Mori e l’altro imputato, il colonnello Mauro Obinu, per le “scelte operative discutibili adottate nel tempo, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Provenzano” già il 31 ottobre del 1995 a Mezzojuso (Palermo). Proprio attorno a questo episodio e a tutti gli accordi che ci sarebbero stati dietro ruotava il dibattimento concluso con l’assoluzione dei due imputati: non ci fu dunque alcun accordo tra Stato e mafia, dietro la prosecuzione della latitanza di “Binu”, anche se “non mancano aspetti che sono rimasti opachi”.

In ogni caso – scrivono i giudici nella corposa motivazione di 1300 pagine – “le peculiari circostanze che caratterizzarono l’episodio del 31 ottobre e la stessa, personale esperienza investigativa del colonnello Michele Riccio (l’investigatore che aveva indicato come prendere Provenzano, ndr) non consentono di nutrire alcuna certezza in ordine all’esito fausto che l’operazione avrebbe potuto avere se fossero state prescelte linee di azione diverse”.

Proprio la prudenza e l’astuzia di Provenzano avrebbe fatto fallire i tentativi di cattura e “proprio il fallimento della pregressa attività investigativa può aver consigliato di puntare esclusivamente sull’auspicato, nuovo incontro del boss” con il confidente Luigi Ilardo, l’esca sulla quale avrebbe dovuto puntare Riccio. Incontro che “per molti mesi è stato ritenuto imminente”.

Pur criticando “la condotta attendista prescelta”, i giudici ritengono che il comportamento di Mori e Obinu, “in termini oggettivi“, potrebbe configurare il reato addebitato, cioè il favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra. “Posto ciò, si deve, però, rilevare che, benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provatoaldilà di ogni ragionevole dubbioche le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura. Ne consegue – rilevano i giudici della Quarta Sezione – che i medesimi devono essere mandati assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato, che sembra al Tribunale quella che più si adatti alla concreta fattispecie”.

Quanto a Ciancimino e allo stesso Riccio, i giudici hanno trasmesso gli atti alla Procura, perché persegua entrambi, data “la sicura incidenza sul processo delle dichiarazioni dei predetti e la evidenziata inaffidabilità di svariate indicazioni dei medesimi, che non consente di escludere la consapevole e deliberata falsità delle stesse“.

 (AGI)