Arco mediterraneo. Guerre umanitarie e guerra permanente (1)

È molto difficile parlare di guerre ‘umanitarie’ per la salvaguardia dei diritti dell’uomo o di una popolazione….qualche riflessione interessante su quanto è accaduto nell’ultimo decennio nell’arco mediterraneo e oltre (Afghanistan)

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La Risoluzione dei quindici membri del Consiglio permanente di Sicurezza (CdS) dell’ONU adottata nella notte fra il 27 e il 28 settembre 2013 su iniziativa russa in, merito alla questione siriana, ha evitato almeno per qualche mese l’ennesima “guerra umanitaria” già preparata contro Damasco e fermato i caccia francesi e statunitensi pronti al decollo dalle basi di Cipro e Bahrein.

Il documento del CdS presenta numerosi elementi di discontinuità rispetto alla vulgata dell’onda mediatica sulla vicenda siriana.

In primo luogo il CdS condanna l’uso di armi chimiche e la strage di Goutha (21 agosto 2013) senza addebitarla ad alcuno dei contendenti e di fatto rigetta le “prove certe” presentate pubblicamente dagli USA che indicavano come responsabile la Siria. Richiede inoltre a Damasco l’elenco esaustivo dell’armamento chimico entro una settimana e la distruzione degli arsenali entro giugno 2014.

In entrambi i casi l’eventuale violazione dei termini non prevede l’automatico uso della forza (Capitolo VII della Carta dell’ONU) ma postula una nuova Risoluzione del CdS.

Infine convoca la “Conferenza di Pace Ginevra 2” con tutti gli interlocutori areali alla metà di novembre 2013.

Il Presidente siriano ha consegnato le mappe dell’armamento chimico pochi giorni dopo la conclusione del Vertice ONU che aveva già esaminato il Rapporto dei suoi Ispettori rientrati dalla missione in Siria – iniziata proprio il giorno della strage di Goutha – che conferma l’avvenuto uso di armi chimiche negli oltre due anni del conflitto senza indicare alcun colpevole.

Alla fine del Vertice la telefonata del Presidente americano al suo omologo iraniano segnava l’inizio di una nuova fase non solo fra i due Paesi i cui rapporti diplomatici erano interrotti dal 1979 ma per l’intera Regione.

La disponibilità del Presidente Hassan Rouhani a un accordo entro tre/sei mesi sul nucleare, del quale ha ribadito il solo scopo civile, segnala la saldatura dell’Iran con la Siria – sostenuta sin dall’inizio dello scontro con l’opposizione sia direttamente che attraverso Hezb’Allah libanese – e con la Russia che già nel 2012 aveva raggiunto sul tema significative intese con Teheran.

La posizione altalenante di Washington nella Regione trova radici in due principali motivi.

Dal 2011 gli Usa hanno spostato il baricentro geo-strategico dall’Atlantico al Pacifico dove stanno riposizionando la maggioranza della flotta che passerà entro il 2014 dall’attuale 50% al 60% secondo una strategia mirante a una maggiore efficacia nel confronto con la Cina (sul punto si rinvia all’articolo “Geostrategia del XXI secolo: dall’unipolarismo USA al mondo multipolare”, dello stesso autore, su Osservatorio Analitico).

Il secondo ma più profondo motivo risale all’11 settembre 2001 quando Washington – dopo l’attentato alle Torri Gemelle – ridefinì minacce e nemici asimmetrici inglobando nella “guerra mondiale contro il terrorismo” movimenti anticolonialisti e regimi non allineati alla policy USA equiparandoli ad Al Qaeda e altre reti criminali.

Furono identificati due tipi di minacce asimmetriche: le guerre interne dovute all’implosione di Stati per effetto della globalizzazione e le minacce transnazionali provenienti da un quadro strategico violento e de-territorializzato, lacerato da micro conflitti, sottosviluppo e trasformazioni demografiche.

In queste minacce furono compresi movimenti di resistenza nazionale come Hamas, Fatah, Hezb’Allah e assimilati ad Al Qaeda, nonostante questa organizzazione ne sia l’assoluto contrario perché priva di un suo territorio e caratterizzata da moduli operativi internazionalisti.

Le guerre in Afghanistan (ottobre 2001) e Iraq (marzo 2003) si sono rivelate un disastro.

Seminando il “caos costruttivo” gli USA hanno provocato scontri fra regimi, gruppi ed etnie fino a vere e proprie guerre civili con una destrutturazione dei Paesi i cui effetti permangono ancora oggi.

Il subentrante Presidente USA Barak Obama (gennaio 2009), eletto anche perché molto critico con la precedente gestione della politica estera, si presentò in Medio Oriente con grandi aperture (Il Cairo, giugno 2009) e fu insignito del Premio Nobel “Per la Pace” (ottobre 2009). Si trovò, però, a gestire due guerre ancora in corso.

Per fronteggiare l’ampio spettro delle minacce, il Presidente dovette adottare una serie di misure consustanziali a quelle del predecessore.

In sintesi Barak Obama ha: confermato la “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism” (Patriot) ACT 2001 fortemente limitativa dei diritti del cittadino (ancora in vigore); mantenuto aperte le prigioni di Guantanamo (tuttora operante) a Cuba e quelle di Abu Ghraib in Iraq e Bagram in Afghanistan (negli ultimi due Paesi le competenze sono passate alla Sicurezza  locale rispettivamente nel 2011 e nel 2013).

In questi luoghi di detenzione erano trasferiti (spesso) senza accuse, senza assistenza legale, torturati e umiliati, migliaia di persone sospettate (anche in mancanza di prove) di terrorismo.

Inoltre, sono state implementate misure di sorveglianza informatica in tutto il mondo in danno di cittadini statunitensi e stranieri e di Paesi Alleati e nemici (o supposti tali).

Nel nome della sicurezza degli Stati Uniti d’America sono state violate tutte le vigenti Convenzioni sui diritti umani.

Dopo l’ulteriore disastrosa guerra in Libia (19 marzo – 31 ottobre 2011) della NATO sotto comando USA e il recente supporto alla guerra iniziata dalla Francia in Mali (gennaio 2013) – dove permangono tensioni e scontri nel Nord, a Kidal, tra i ribelli Tuareg e l’Esercito – il Presidente USA, al secondo mandato, ha annunciato una nuova strategia in realtà già presente nel conflitto libico.

L’iniziativa armata contro Tripoli fu preparata da campagne mediatiche di delegittimazione del regime al potere e le manifestazioni di protesta furono supportate e pilotate da attori esterni interessati sin dall’inizio. E’ il “modulo libico”.

In Libia le prime manifestazioni disarmate a Benghasi (17 febbraio 2011), brutalmente represse dai reparti Speciali comandati da Khamis Gheddafi, furono gestite nell’immediato da esponenti del regime libico che avevano subito disertato ed erano da tempo  in contatto con agenti statunitensi, francesi e inglesi.

Contestualmente le emittenti “Al Jazeera” (del Qatar) e “Al Arabiya” (dell’ Arabia Saudita) diffondevano notizie – poi rivelatesi false – di massacri, fosse comuni, bombardamenti e altissimo numero di vittime.

Immediate furono anche le Risoluzioni del C.d.S. ONU che in meno di un mese (fine   febbraio e fine marzo 2011) disposero con la prima (1970/2011) embargo sulle armi,  deferimento alla “Corte Penale Internazionale” (CPI) di Gheddafi, del figlio Seif e di Abdallah Senoussi, Capo dell’intelligence, nonché congelamento dei patrimoni del regime e con la seconda (1973/2011) la no fly zona la cui interpretazione estensiva consentì la vittoria dei “rivoltosi” attraverso la devastazione del Paese, il linciaggio e l’uccisione di Gheddafi e del figlio Moatassin e la parcellizzazione di fatto della Libia in tre regioni: Tripolitania, Cirenaica (a Nord est del Paese, a giugno 2012 ha dichiarato l’indipendenza e l’autonomia) e Fezzan (a Sud Ovest, a settembre 2012 s’è autoproclamata Provincia autonoma).

I risultati immediati della “guerra umanitaria” – con i consueti danni collaterali (singolare eufemismo per indicare le vittime civili) – sono: un Paese in preda a oltre 500 milizie armate generosamente da Paesi della Coalizione NATO e arabi (in primis Qatar e Arabia Saudita) oltre che dal saccheggio degli arsenali di Gheddafi; contaminazione della fascia sahelo-sahariana (Algeria, Mali, Niger, Ciad); emersione di numerose formazione di matrice qaedista e responsabili, fra l’altro, dei due attentati in danno del Consolato USA a Benghasi nella ricorrenza dell’ 11 settembre (2012 e 2013) nel primo dei quali vennero uccisi anche l’Ambasciatore Christopher Stevens (che aveva supportato la rivolta del 2011 e armato gli “insorgenti”) e tre funzionari.

La cifra del disastro libico – ormai “somalizzata” – è data dal sequestro (10 ottobre 2013) del Premier Alì Zaidan a Tripoli da parte della milizia “Camera dei rivoluzionari di Libia” formata da rivoltosi ora dipendenti dal Ministero dell’Interno per protestare contro l’appoggio fornito dal Governo libico agli USA che hanno tratto in arresto a Tripoli (5 ottobre 2013) un presunto leader di Al Qaeda, Abu Anais al Liby. Dopo poche ore Alì Zeidan è stato liberato.

Approcci diversi sono stati tenuti dalla Comunità Internazionale nei confronti di altri Paesi attraversati da movimenti insurrezionali: la rivolta della minoranza sciita in Bahrein (marzo – giugno 2011) fu risolta con l’invio delle Forze Armate di Arabia Saudita ed Emirati; nello Yemen, piegato da movimenti indipendentisti nel Sud, formazioni sciite combattenti nel Nord, una pervasiva presenza di “Al Qaida in The Arabic Peninsula (AQAP), mancanza di risorse naturali (tra cui l’acqua) ed estrema povertà, le manifestazioni contro il Presidente Alì Abdullah Saleh con un alto numero di vittime (quasi mille) hanno comportato il cambiamento – pilotato da Arabia Saudita  e USA – del leader con il suo vice Abd Rabbu Mansour al Hadi  (25 febbraio 2012); l’estromissione dei Presidenti in Tunisia ed Egitto (rispettivamente 16 gennaio e 11 febbraio  2011) ha registrato il mancato appoggio da parte dell’Occidente e degli USA in particolare nei confronti dei Leader Ben Alì e Mubarak  e la vittoria dei Fratelli Musulmani moderati supportati dall’ Esercito, ben accettati da USA e Comunità Internazionale ma già deposti (in Egitto) o costretti (ottobre 2013) a un Governo emergenziale per nuove elezioni (Tunisia) calendarizzate entro il mese successivo. I movimenti di protesta proseguono in Bahrein, Kuwait, Yemen, Giordania, Algeria e Marocco nel disinteresse dalla Comunità Internazionale.

Per la Siria è applicato il “modulo libico” ritardato dai veti di Russia e Cina in sede di CdS.

Nel contempo logistica, finanziamenti, addestramento e armamento dei “ribelli” – per la maggioranza non siriani ed espressione di formazioni jihadiste inserite nell’elenco dei terroristi – vengono assicurati da alcuni dei Paesi riuniti nella coalizione degli “Amici della Siria” (120 fra Paesi e istituzioni internazionali) i quali hanno da tempo (per prima la Francia alla fine del 2011) riconosciuto l’eterogenea opposizione combattente come “legittimo rappresentante del popolo siriano”.

(Continua)

© RIPRODUZIONE RISERVATA – ARTICOLO PUBBLICATO IN ORIGINE SU “OSSERVATORIO ANALITICO”, RIPRODOTTO PER GENTILE CONCESSIONE DEL DIRETTORE SCIENTIFICO (WWW.OSSERVATORIOANALITICO.COM) 

2 pensieri riguardo “Arco mediterraneo. Guerre umanitarie e guerra permanente (1)

  • 18/11/2013 in 08:54:31
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    Gli Stati Uniti hanno raggiunto all’inizio del 21° secolo l’apice ella loro potenza. Da lì è iniziato il declino.
    Un declino che cercano di ritardare con tutti gli espedienti possibili, senza andare mai ad intaccare, però, quelle che sono le cause prime del declino. Anche perché, in altri tempi, esse furono anche i fattori che li portarono a raggiungere la loro potenza.
    La situazione attuale è che nael 2025 la Repubblica Popolare Cinese eguaglierà le capacità produttive degli USA, …. ma con una popolazione tripla.
    Devono, fin da ora, rifarsi i conti, anche se è molto, molto diffcile farli quadrare, da come sono messi.

    • 18/11/2013 in 11:19:26
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      Per Pierpaolo:
      E’ così: dobbiamo capire che la Cina, l’India e forse il Brasile saranno i nuovi attori protagonisti almeno del secolo 21° e forse anche del 22°…gli equilibri cambiano come sempre nella storia. E per questo la storia è una avventura affascinante.

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