Gentiloni: in Libia l’Italia “lavora per scongiurare disastro”. Prossima fermata, Tripoli e Bengasi…

Se la posizione “vera” del Governo italiano è quella espressa dal neo-ministro degli Esteri, il disastro si compierà e il prezzo più elevato lo pagherà proprio l’Italia. Forse però il quadro operativo reale è un altro e per questo non schieriamo i bombardieri nel Golfo Persico. Serve azione immediata, guidata dall’Italia e con il cappello delle Nazioni Unite (se possibile) e della NATO, nel quadro del diritto internazionale

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Roma – Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, intervistato da Lucia Annunziata nel domenicale “In mezz’ora”, non ha parlato solo di Marò e della speranza di poter risolvere la crisi con l’India, grazie alla magnanima predisposizione del governo Noda (il corsivo è di chi scrive).

Sulla Libia, Gentiloni è stato schematico. Adesso “c’è mezzo mondo che preme per una divisione della Libia” e l’Italia sta “esercitando la sua tradizionale forza nel Mediterraneo per scoraggiare quelli che vogliono far precipitare la situazione“. Poi il titolare della Farnesina ha spiegato che un’eventuale forza di interposizione dell’Onu deve andare in Libia come forza di pace. “Già tre anni fa abbiamo fatto l’errore di pensare che con la sola forza, ma senza un progetto politico, si risolva qualcosa“, un’affermazione pienamente condivisibile anche se la situazione odierna è oggi assai diversa. Ancora, Gentiloni ha spiegato che l’Italia sta svolgendo in Libia un lavoro straordinario, attraverso la presenza dell’ambasciata italiana a Tripoli, che è rimasta operativa e che serve come supporto alla mediazione delle Nazioni Unite e di Bernardino León Gross, l’inviato speciale del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon. Senza gli italiani, l’opera di León Gross sarebbe molto più difficile

Circa un intervento militare multilaterale, da svolgersi sotto la bandiera delle Nazioni Unite, Gentiloni ha chiarito il percorso che il Governo italiano considera necessario: “occorre che ci sia un sentierino aperto; e il lavoro che sta facendo l’inviato delle Nazioni Unite, con il quale mi sento costantemente, e’ tenere aperto questo sentierino“. Quindi, ha precisato, “nel momento in cui ci fosse un’intesa tra le due parti, se non altro per un governo di transizione, penso che le Nazioni Unite potrebbero andare lì con una forza di peacekeeping e l’Italia potrebbe avere un ruolo molto rilevante“, salvo poi ammettere “onestamente” che “questo risultato è difficile da realizzare“.

Gentiloni ha però rilevato alcuni aspetti interessanti, anche in modo implicito.

Anzitutto, l’Italia in questo momento svolge in Libia un lavoro fondamentale per tutta la comunità atlantica, perché rappresenta gli interessi di Stati Uniti, Francia e Spagna – per citare solo alcuni Paesi – con un’azione di coraggiosa e certosina opera di ricucitura con ambienti difficili, in cui le risorse del Paese possono lavorare con estrema cognizione di causa. Non è un caso l’apprezzamento formulato dal segretario di Stato americano, John Kerry, nella prima conversazioen telefonica con il neo-insediato mnistro degli Esteri. 

In secondo luogo, l’Italia sta svolgendo un’azione equidistante tra le parti (quanto meno in linea di principio), circostanza che le fa guadagnare un consenso diplomatico maggiore di quanto ne avessero francesi, britannici e americani tre anni fa, all’epoca della deposizione di Gheddafi.

Infine, la qualità dell’azione italiana è il presupposto perché un’eventuale missione militare sotto l’egida delle Nazioni Unite possa svolgersi a guida italiana, nelle prossime settimane, prima che la situazione precipiti, in modo tale da separare sostanzialmente le parti e salvaguardare l’unità del Paese “dirimpettaio”. Di fatto contrastando quelle forze di mezzo mondo – di matrice fondamentalista islamica – che invece vorrebbero separare la Cirenaica dalla Tripolitania, per proclamare l’adesione al cosiddetto “Califfato” di al-Baghdadi.

Un’esito nefasto a prescindere dalla sopravvivenza o meno del “califfo”, vista l’articolazione orizzontale del potere militare in seno all’Isil (non ci addentriamo in ragionamenti sulla potenza carismatica di un eventuale successore di Abu Bakr al-Baghdadi).

Emerge quindi una delle reali motivazioni per cui l’Italia non schiera i propri caccia nel Golfo Persico, a sostegno più operativo delle operazioni di neutralizzazione delle milizie jihadiste dell’Isil: c’è un fronte più vicino che aspetta di essere aperto, probabilmente anche a sostegno di forze militari libiche “laiche” e non ostili alla cooperazione con l’Occidente. Un’operazione che dovrebbe essere nominalmente di peace keeping, ma sostanzialmente di peace enforcing e di liberazione dalle milizie jihadiste operanti sul territorio.

L’azione immediata che serve per liberare la Libia dal pericolo fondamentalista – una domanda di sicurezza che proviene peraltro dalla stragrande maggioranza della popolazione libica – è peraltro un’occasione d’oro per rinsaldare i legami storici di amicizia tra Italia e Libia, strategici non solo per motivi energetici, ma più in generale per la stabilizzazione del Mediterraneo Centrale.

Dunque, malgrado le affermazioni “morbide” di Gentiloni, è possibile che alla Farnesina si possa assistere a un cambiamento di passo rispetto ai precedenti titolari del dicastero, in linea con quell’attivismo renziano proteso a risolvere (quanto meno con le parole) i problemi. Non sarà necessario molto tempo per verificare se le attese saranno soddisfatte: la gravità dei dossier aperti sul tavolo del capo delle feluche italiane è tale, da non consentire ulteriori rallentamenti.

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