La Top 20 del 2014 – Il meglio dell’anno cinematografico (Seconda Parte)

Ripercorriamo il 2014 al cinema, dalla 10ª alla 1ª posizione nella nostra Top 20. Ma anche “La delusione dell’anno” e il “Film inedito”

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Gela – Nella lista dell’annuale Top 20 dei migliori film usciti nelle sale italiane, di cui abbiamo già pubblicato la prima parte (qui), apprezzerete che non sono presenti solo le pellicole che a nostro avviso occupano le posizioni dalla decima alla fatidica prima. Aggiungiamo anche due novità: la “Delusione dell’anno” e il “Film inedito“.

Va peraltro detto che anche nel caso del film che noi giudichiamo “deludente” si parla sempre di un prodotto cinematografico discreto, ma che – secondo almeno le nostre aspettative – è venuto meno alle “promesse iniziali”. Per il film inedito invece si è presa in considerazione una pellicola che noi consideriamo la migliore uscita in vari mercati internazionali, ma ancora in attesa di trovare un distributore nel nostro Paese. 

  1. Snowpiercer, di Bong Joon-ho

Il trionfo di Bong Joon-ho oltreoceano con il suo esemplare adattamento della serie a fumetti francese Le Transperceneige; un film dalle enormi ambizioni commerciali piegato alle esigenze autoriali del regista, che prende un treno e lo rende metafora del mondo in cui viviamo riuscendo a masticare e rielaborare trent’anni di fantascienza occidentale (da “Brazil” a “Matrix”) servendosi dei più iconici stilemi orientali, di cui è fiero portatore. E poi varrebbe la pena vederlo anche solo per la camaleontica performance di Tilda Swinton.

Jake Gyllenhaal in "Nightcrawler"
Jake Gyllenhaal in “Nightcrawler”
  1. Lo sciacallo – Nightcrawler, di Dan Gilroy

Quello di Dan Gilroy (fratello di Tony) è un esordio coi fiocchi; un film talmente potente nella sostanza e misurato nella messa in scena da far tornare alla mente i fasti della New Hollywood. Perché anche il lavoro su volto e fisico compiuto da Jake Gyllenhaal non può non ricordare l’impegno e la dedizione che grandi del passato (come Al Pacino e Robert De Niro) hanno riversato nel loro lavoro. In più Nightcrawler non è solamente una denuncia al sistema manipolatore dei media, è una critica alla società contemporanea che riversa questa manipolazione nella vita di ogni giorno, arrivando a preferire l’irreale al reale. In un mondo del genere che peso può avere la verità?

  1. The Wolf of Wall Street, di Martin Scorsese

Il cinema di Scorsese, così come la sua vita privata, non è mai stato esente da eccessi. Ecco perché il regista italoamericano è perfettamente a suo agio nel narrare la parabola di ascesa e caduta di Jordan Belfort; una storia di dipendenza frenetica, inarrestabile e funambolica che tiene inchiodati alla poltrona per tutte e tre le ore della durata. La mano di Scorsese si sente però maggiormente nei momenti in cui la tensione viene rallentata, un po’ per dare ordine e forma al racconto, un po’ per distendere il tono, assolutamente su di giri, della pellicola.

Marion Cotillard e Joaquin Phoenix in "C'era una volta a New York"
Marion Cotillard e Joaquin Phoenix in “C’era una volta a New York”
  1. C’era una volta a New York (The Immigrant), di James Gray

Da sempre il cinema di James Gray rimastica i generi cinematografici per (ri)discutere i suoi temi più cari – tra tutti quello del peso della famiglia nelle scelte della vita. Lo aveva fatto col noir (“Little Odessa” e “The Yards”), contaminandolo col poliziesco (“We Own the Night” – I padroni della notte), passando per il mélo (“Two Lovers”). Stavolta la purezza sostanziale del suo cinema riesce a sublimare se stessa anche per mezzo di una ormai perfettamente raggiunta maturità formale. Non si può infatti rimanere indifferenti a una ricostruzione visiva che più volte rimanda all’epica del cinema di Sergio Leone, ma quello di Gray non è solo un omaggio perché ciò che vediamo sullo schermo è un autore maturo, completo, pronto per il prossimo (struggente) film.

  1. Nebraska, di Alexander Payne

Un padre. Un figlio. Una madre petulante. Un viaggio della salvezza (mentale e personale) fino in Nebraska. Una motivazione come un’altra: quel maledetto milione di dollari. In mezzo? L’America, in tutte le sue sfaccettature.  Meraviglioso è il paesaggio che Payne osserva con occhio giornalistico e ci restituisce in un magnifico bianco e nero, ma non privo di quell’estasi di cui le sue storie si nutrono. Payne è anche un ritrattista in senso moderno, i suoi personaggi difficilmente sono dimenticabili, anzi proprio per niente. Difficile scordarsi la rassegnazione sul volto di Jack Nicholson in “About Schmidt” (A proposito di Schmidt) o il lento disvelamento degli inganni sentimentali affrontati dal George Clooney di “The Descendants” (Paradiso amaro), così come sarà impossibile dimenticare il volto scavato e vissuto di Bruce Dern in questo splendido Nebraska.

  1. A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis), di Joel & Ethan Coen

Il caso, la sfortuna, il fato. Sono temi che ricorrono sempre nella filmografia di Joel e Ethan Coen fin dal bellissimo esordio con Blood Simple per arrivare ad “A Serious Man”, una delle perle più sottovalutate della loro carriera. In tutto questo nichilismo senza fondo, senza spiegazione, surreale, grottesco, comico, i Coen sguazzano come fossero a casa, ma il loro filosofeggiare (a volte scherzoso, altre più serio) è sempre circondato da un rigore stilistico che pochi altri cineasti riescono a mantenere nell’arco di una filmografia. I Coen, al solito, si (e ci) interrogano pur sapendo di non avere le risposte; in una visione del mondo in cui avere le risposte risulta impossibile ci basta un loro film, magistralmente diretto, poeticamente fotografato da Bruno Delbonnel, musicalmente impeccabile grazie agli splendidi brani assemblati e cantati, tra gli altri, da un Oscar Isaac perfetto nella parte di un antieroe, a tratti antipatico ma profondamente vero, reale, tangibile. “Inside Llewyn Davis” è quindi il canto dolce e sofferto di una vita senza scampo. Affascinante, poetico, crepuscolare. Bellissimo.

  1. Lei (Her), di Spike Jonze

Dopo averci mostrato i deliri della mente concepiti da Charlie Kaufman (“Essere John Malkovich” e “Il ladro di orchidee”) e averci trasportato nel complesso e tormentato mondo dell’infanzia (“Nel paese delle creature selvagge”), Spike Jonze al suo quarto film alza la posta e descrive un futuro prossimo dalle fattezze concilianti ma dal peso specifico a tratti profondamente inquietante. Il tutto servendosi di una struttura che non è mai quella del canonico film di fantascienza, ma riuscendo a rielaborare gli ultimi trent’anni di inquietudini generate da progresso tecnologico e involuzione umana. “Her” è oggi quello che “Blade Runner” era nel 1982, una profezia tanto affascinante quanto allarmante.

Ellar Coltrane e Ethan Hawke in "Boyhood"
Ellar Coltrane e Ethan Hawke in “Boyhood”
  1. Boyhood, di Richard Linklater

Chi non conosce la filmografia del regista difficilmente riuscirà a comprendere appieno questa immensa opera; il discorso che interessa Linklater comincia infatti molti anni fa, anche prima dell’arrivo della Before Trilogy e Boyhood ne è in tutto e per tutto una summa. La vita, il tempo che passa e le difficoltà quotidiane sono viste attraverso gli occhi dell’adolescenza, il periodo più complesso dell’esistenza e quello in cui gli eventi che si presentano sembrano scorrerci dinanzi senza possibilità di intervenire in alcun modo perché impotenti e inesperti allo stesso tempo. Linklater ci era arrivato dodici anni fa, ma ha voluto rendercene partecipi solo oggi grazie a questo progetto unico.

  1. Solo gli amanti sopravvivono (Only Lovers Left Alive), di Jim Jarmusch

fin dal titolo infatti appare evidente una presa di posizione personale del regista nel voler affermare il proprio snobismo e del suo compiacersene, infischiandosene dell’opinione altrui. “Only Lovers Left Alive” è innanzi tutto un atto d’amore verso le passioni dell’autore, in grado di distinguerlo da una massa brulicante di zombie gli uni uguali agli altri. Sebbene questo aspetto risulti fin dalla superficie, è innegabile poi il gusto estetico di Jarmusch, che qui raggiunge vette e quella sottile alchimia tra romanticismo decadente e ironia pungente raggiunte forse solo in “Dead Man”. Jarmusch vuole rappresentare (e con successo ci riesce) quella parte umana (attraverso dei vampiri!) di noi stessi che gode della propria condizione di eterna infelicità in un mondo ormai ridotto in cenere (l’ambientazione a Detroit è emblematica). Ma ancora di più, gode della propria condizione di amante (dell’arte, della musica, della poesia, della vita), tutti gli altri sono come zombie.

Ralph Fiennes e Tony Revolori in "Grand Budapest Hotel"
Ralph Fiennes e Tony Revolori in “Grand Budapest Hotel”
  1. Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson

Non poteva che esserci lui in vetta: il genio di Wes Anderson. Col suo racconto a scatole cinesi, ambientato in una terra inesistente e che guarda con occhi romantici e malinconici a un mondo antico, ma tremendamente affascinante per i suoi modi e costumi. Verso una cordialità regale e una gentilezza intrinseci che non esistono più. M. Gustave è il simbolo di un mondo che non trova più spazio in quello da noi abitato e vissuto ogni giorno e il regista ha voluto ricordarcelo alla sua maniera (non nascondendo neanche le barbarie di un periodo che definire storico è azzardato, ma che si ricollega bene al mondo antico che ha ceduto il passo a quello nuovo). Lo fa con il suo riconoscibilissimo stile, in cui ormai si destreggia ad occhi chiusi: ogni singola inquadratura è studiata nel dettaglio per donare gioia ai sensi, eppure lo spettatore non sembra neanche accorgersene. Succede solo coi grandi.

La “Delusione dell’anno”: Interstellar, di Christopher Nolan

Il film più atteso dell’anno, il confronto tra Nolan e la pura fantascienza, quello che fin dai primi spot pubblicitari non ha paura di tirare in ballo riferimenti a 2001: Odissea nello spazio, cade sotto il peso delle sue stesse ambizioni. Perché “Interstellar” vorrebbe unire idee rivoluzionarie a una forma tremendamente canonica di blockbuster. Perché la fantascienza è per antonomasia l’arte che pone allo spettatore domande al quale non potrebbe mai rispondere, lasciando intatto il piacere della scoperta. Non è questo il caso, dove Nolan sembra imboccare ogni mezz’ora i suoi spettatori con le sue deliranti teorie sull’amore e mostrandoci un buco nero/limbo in cui nulla è lasciato al pensiero, ma tutto è detto a gran voce rubando il mistero e il fascino a un’opera che poteva aspirare a ben altro.

“Film inedito”: Enemy, di Denis Villeneuve

Poche chiacchiere: Denis Villeneuve è un genio. Dopo l’ottimo Prisoners, traduce per lo schermo il verbosissimo romanzo di Saramago nell’unica maniera possibile, facendo parlare le immagini. La sua è una costante e ossessiva ricerca dell’inquadratura più spigolosa, più disturbante, perfetta. Bastano uno sguardo e pochi movimenti di macchina che pedinano di nascosto il protagonista per sbatterci in faccia tutto il disagio che affronta, l’angoscia di una scoperta al di là dei limiti del reale. “Enemy” è il capolavoro del regista canadese, che vanta una filmografia fatta solo di vette assolute e che non ha paura di osare, di alzare ancora l’asticella delle proprie ambizioni, riuscendo a soddisfare pienamente la voglia di cinema dello spettatore.

Un doppio Jake Gyllenhaal in "Enemy"
Un doppio Jake Gyllenhaal in “Enemy”

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