F1 bacchettona. Ridateci i Durex della Surtees e Hunt che posava per Playboy. Lo champagne di Hamilton è da oratorio

di RTurcato e John Horsemoon

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Torniamo su un fatto recente per sottolineare quanto sia stupida la ‘narrazione’ – come s’usa dire oggi – delle corse automobilistiche, da sempre panorama in cui lo spirito vitale della sensualità si è misto a quello oscuro della morte potenziale, riassunto nel noto detto “motorsport is dangerous’. Ma è più pericolosa la retorica corrente…

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Sul podio del Gran Premio della Cina Lewis Hamilton ha spruzzato dello champagne su una delle hostess presenti. Un gesto che si innesta nella tradizione dei festeggiamenti propri del luogo in cui il vincitore di una gara sportiva manifesta la propria gioia per l’ambito traguardo raggiunto.

Tutto normale? Neanche per idea. Nei giorni seguenti una valanga di critiche è piovuta sul pilota inglese della Mercedes, che a un certo punto ha dovuto scusarsi, spintaneamente diremmo, piegandosi al politicamente corretto del marketing e della comunicazione istituzionale, probabilmente anche con qualche sorpresa in chi questa decisione deve averla presa, pensando “ma in che mondo viviamo?”.

Ora quelle critiche verso Lewis Hamilton si stanno attenuando e le gocce di champagne spruzzato sulla bella ragazza cinese sul podio di Shanghai sono evaporate in un mare di ipocrisia. Ma neanche il tempo per interrogarsi se non vi siano cose più serie cui pensare, ecco emergere l’intenzione di eliminare dalle griglie di partenza quelle ‘Grid Girl’ che movimentano le fasi precedenti della partenza di una gara, portando il cartello con il nome e il numero del pilota della posizione cui ciascuna di loro viene assegnata.

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Ariapriti-cielo. Alla FIA pare stia emergendo l’idea che le ‘Grid Girl’ non diano all’opinione pubblica mondiale un’immagine consona della donna, che non può essere servile verso l’uomo. Forse nel mondo asettico contemporaneo, dove al babbo e alla mamma si vogliono sostituire genitori numerati, una bella donna che fa contorno in una gara automobilistica può passare per mancanza di rispetto, mentre la stessa donna confinata in un call center, illuminato dai neon bianchi delle luminarie a norma di sicurezza sui luoghi di lavoro, svolge un ruolo più dignitoso in questa società.

Sembra che tutti non riflettano a sufficienza su quello strano connubio vita/morte che scorre da sempre nella ‘narrazione’ (come usa dire oggi) delle corse automobilistiche.

La vita rappresentata dalla beltà femminile – spesso florida, esibita con impudente nonchalance, sfacciata e compiacente – e la morte, rappresentata da quelle costruzioni meccaniche che chiamiamo monoposto o auto da corsa, in cui si mischia la chimica e la fisica, la scienza dei materiali, il coraggio e l’incoscienza, spesso la fortuna malandrina, altre volte purtroppo il muro della realtà.

A quel punto il mantra diventa “Motorsport is dangerous”: segno che la morte ha sublimato se stessa in una nuova esistenza evanescente ai sensi. Si coprono le monoposto con i teli e le pure le tette al vento; si archiviano i sorrisi; ciascuno si sveglia in un incubo che presto lascia posto all’analgesia della quotidianità. Almeno fino all’appuntamento seguente, che tutti sappiamo dietro l’angolo, ma altrettanto tutti gli attori – perfino noi che guardiamo anelando l’impossibile – spingono con un fiato ideale in là nella vita.

Tutto questo rischia di scomparire, di fronte alla demagogia dei cosiddetti benpensanti della FIA. E che siano ‘benpensanti’ lo si capisce dall’attenzione calante degli spettatori ai gran premi di F1 e dalla crescita contemporanea di altri campionati – come Indycar e Nascar – in cui la vicinanza tra pubblico e attori in pista è ridotta al minimo e dove a nessuno verrebbe in mente di eliminare il contorno femminile sulle griglie di partenza e nei paddock.

Seguendo il politicamente corretto della FIA, boldriniani a loro insaputa a Place de la Concorde, allora bisognerebbe vietare le pubblicità ammiccanti, le sfilate di moda come eventi mondani, ogni occasione in cui la donna è intesa da qualcuno come strumento, ma invece è attore centrale della scena. Come in natura, vorremmo sommessamente ricordare, dove ancora per nascere ci vuole una madre (per noi ‘conservatori’ pure un padre, ma si sa, sono opinioni…).

Una volta invece la F1 era davvero progressista, anticipava i tempi, precorreva le strade tecniche tanto quelle della comunicazione e della pubblicità: era il tempo del coraggio di portare in griglia monoposto con i profilattici ‘Durex’ come sponsor. Beati Anni ’70, quanto le televisioni britanniche non trasmettevano i gran premi e la notorietà di James Hunt era lasciata al passa parola della passione, non certo alla notorietà massificante della tv. Inalterata ‘narrazione’ (arieccola…), diremmo. Anzi, con ampia attenzione dei media classici.

Perché prima di riportare la figura mitica di un viveur dell’esagerazione come James Hunt alla conoscenza del grande pubblico (soprattutto di più recente ‘produzione’ umana: leggasi più giovane…), con il film ‘Rush’, il suddetto si diede a tutto, non si fece mancare niente, perfino un servizio su ‘Playboy’, che – come noto – non è mai stato l’organo ufficiale della Società Britannica di Filosofia Morale

Così, tra il lusco e il brusco, con lo sguardo stranito da certe idee balzane e un pensiero di rassegnata mestizia sulla prossima scomparsa delle belle tope dalle griglie di partenza delle gare automobilistiche, provochiamo un po’, rispolverando dagli archivi telematici di internet – nuova Biblioteca immateriale di Alessandria – alcune foto di quel servizio di Hunt ‘The shunt” con bellezze del tempo di poco vestite.

E nel chiedere al ‘dio dei circuiti’ di far rinsavire tutti, ci chiediamo: oggi la McLaren avrebbe il coraggio di concedere una monoposto per un servizio fotografico analogo?

Ne dubitiamo…

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