John McLaughlin, ex vice-direttore Cia, demolisce politica di Obama in Medio Oriente: “Stato Islamico può vincere”

McLaughlin è stato capo delle operazioni e vice di George Tenet alla guida della Intelligence Community statunitense. Esperto di Medio Oriente, oggi insegna presso il Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della John Hopkins University. In un articolo su ‘Washington Post’ argomenta – a contrario – come e perché i jihadisti del sedicente Stato Islamico stiano prevalendo in una guerra che non si può perdere. Malgrado Obama

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Washington – “Schiaffo a POTUS. L’FBI indaga“. Potrebbe essere questo il titolo di un film di fantapolitica con una trama quanto mai attuale, una randellata – con linguaggio diplomatico e savoir faire da civil servant – al Presidente degli Stati Uniti (POTUS, President Of The United States) e alla politica della Casa Bianca sul Medio Oriente (volendo anche estesa alle relazioni con Russia ed Europa).

Destinatario? Barack Hussein Obama.

Mittente? John Edward McLaughlin, ex Vice-Direttore della Intelligence americana e Direttore delle Operazioni della ‘Ditta’ di Langley.

20140910-barack-obama-655x436In un articolo pubblicato sul ‘Washington Post‘ di ieri, McLaughlin demolisce la politica di Obama in Medio Oriente e, in particolare, verso Iraq e Siria, che non viene nominata, ma cui si può allargare il ragionamento per affinità.

Il titolo dell’articolo è secco, schematico, come spesso solo il pragmatismo anglosassone sa fare: “Come lo Stato Islamico potrebbe vincere (How the Islamic State could win)”. 

McLaughlin inizia la propria analisi da un quesito: “lo Stato Islamico potrebbe vincere?“. Una frase interrogativa da considerare come iperbole, un’ipotesi del terzo tipo, impossibile, perché “la comune convinzione è che il gruppo sia talmente diabolico che debba semplicemente essere sconfitto“, anche se richiederà tempo, ammette.

Il presupposto perché questo accada è costituito da due eventi fondamentali: la riconquista del territorio oggi nelle mani del ‘califfato’ e la fine dell’emarginazione dei sunniti in Iraq e Siria, “il più forte motore di attrazione per le reclute dello Stato Islamico“. Un obiettivo che necessita di una combinazione di scelte militari, politiche e diplomatico. Tradotto: prima randellata a Obama, che ha anticipato l’uscita delle truppe americane dall’Iraq, ma anche alla precedente amministrazione Bush, che avviò la de-baathizzazione della struttura statale irachena, consentendo una prevalenza degli sciiti e emarginando i sunniti, oggi più vicini all’Isis dei tedeschi durante il nazismo.

L’ex vice-direttore della CIA ammette: il sedicente Stato Islamico “quasi certo sopravviverà alla presidenza Obama. Se nei due anni della prossima presidenza (chiunque abiti al 1.600 di Pennsylvania Avenue, ndr) lo Stato Islamico starà ancora governando in modo discontinuo quell’area, sarà duro, nella mia visione, non chiamarla una vittoria“, spiega McLaughlin.

E quindi, come si può impedire che questo accada?

Anzitutto, argomenta McLaughlin, occorre mettere insieme una forza di terra sufficiente a sconfiggere i jihadisti. Oggi “l’esercito iracheno non è all’altezza del compito“, spiega, ma il fatto è che gli Stati Uniti non hanno intenzione di schierare una forza terrestre sufficiente – da 10 a 20mila uomini – né gli Stati Arabi mostrano di poter procedere alla creazione di una forza che si opponga ai jihadisti in modo efficace, sia perché “non hanno esperienza” in progetti del genere che per la scarsa “unità per portare a termine” un obiettivo così ambizioso. È vero – ragiona McLaughlin – che gli Stati Uniti continuano ad addestrare le forze armate irachene, ma “una cosa che ho appreso dal Vietnam e dai conflitti degli ultimi 12 anni è che c’è una differenza enorme tra addestramento di una forza e la capacità di combattere di questa forza“, perché la preparazione non è di per sé sufficiente a spingere gli uomini a combattere. “Le persone non combattono perché sono addestrate“, ricorda l’ex vice-direttore della CIA, ma perché “credono in qualcosa” e oggi i sunniti della regione “credono allo Stato Islamico“.

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In secondo luogo, va impedito ai jihadisti del sedicente Stato Islamici di penetrare a Baghdad, in ogni forma, fosse anche solo con infiltrazioni di miliziani: seminerebbero il caos nella capitale. Questo va impedito per motivi psicologici, non tattici. Sotto il profilo militare non cambierebbe niente, ma la conquista della capitale significherebbe diffondere la demoralizzazione in chi si oppone ai jihadisti dell’ISIS, un effetto che sarebbe devastante, perché mostrerebbe l’impossibilità di sconfiggere i jihadisti (che invece possono essere sconfitti, il messaggio tra le righe di McLaughlin).

In terzo luogo, interrompere il disfacimento dell’Iraq e la divisione settaria tra sciiti e sunniti, con i curdi sempre più separati. Lasciare che l’Iraq continui a disfarsi con i sunniti, gli sciiti e i curdi sempre più separati. In particolare, la separazione in atto tra sunniti e sciiti alimenta la forza politica dei curdi, gli unici ad aver mostrato la capacità di combattere e di sconfiggere l’ISIS. Questo rafforza le spinte indipendentiste curde, che inevitabilmente sono destinate ad aumentare, mentre la forza dell’Iraq è l’unità del Paese articolato in autonomie che si auto-sostengono.

Infine, in quarto luogo, occorre contenere l’influenza dell’Iran sull’esito delle operazioni militari in Iraq, che è stata militarmente decisiva, ma sembra politicamente in grado di minare gli equilibri della regione, soprattutto se Teheran decidesse di incrementare la presenza sul terreno di truppe di terra, sia schierando mezzi corazzati che permettendo l’arrivo delle milizie Hezbollah dal Libano, oltre che i reparti delle Guardie Rivoluzionarie comandate dal generale Qassem Suleimani, già operanti in Iraq. Un incremento della presenza iraniana produrrebbe le mosse saudite, anche in sostegno dichiarato all’ISIS, una mossa che sarebbe devastante.

I quattro punti sono decisivi per non far vincere il sedicente Stato Islamico in Iraq e Siria. Quattro schiaffi alla politica del presidente Obama, accusato indirettamente di aver indotto una “paralisi politica” in America e in Medio Oriente. Obama – indirettamente – è accusato di non decidere: “la chiara lezione degli ultimi anni è che non decidere è di fatto una decisione“, la premessa per scelte ancora peggiori.

La considerazione che se ne può trarre è che niente avviene per caso in ambienti della difesa.

Oggi sono emerse le vere e proprie denunzie di piloti della US Navy che accusano la burocrazia militare di lentezza decisionale nel bombardare obiettivi dell’ISIS. Evidentemente, non può volerci un’ora per avere l’ok al bombardamento di un obiettivo jihadista: in un’ora i jihadisti hanno mostrato di essere capaci di fare una carneficina di militari e di civili, donne e bambini inclusi.

L’ex Direttore delle Operazioni della CIA non cita espressamente la Siria, ma se il ragionamento è valido per l’Iraq, lo è allo stesso tempo per Damasco, su cui Usa e Russia dovrebbero convergere con la logica del minor danno. Piaccia o non piaccia, oggi Bashar al-Assad è di gran lunga il male minore per la Siria e le potenze mondiali – Stati Uniti e Russia in testa, con UK, Francia e Cina in supporto – dovrebbero avere tutto l’interesse a impedire la conquista del Paese da parte dei barbari jihadisti.

L’analisi di John McLaughlin ha il sapore della sconfessione della politica di Obama in politica estera, soprattutto sul Medio Oriente. L’Amministrazione Obama è accusata di essere incapace ad agire contro lo Stato Islamico. Una bocciatura che ha pochi precedenti nella Storia militare degli ultimi 100 anni e che mostra il vero nervo scoperto degli Stati Uniti: un Governo incompetente. Quante somiglianze con l’esecutivo Renzi…

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