Cassazione, storica sentenza: cambio di genere sui documenti anche senza cambio di sesso (con bisturi…)

Al termine dell’iter giudiziario attivato da una persona di 45 anni nel 1999, i giudici di piazza Cavour hanno deciso che il mutamento chirurgico di sesso non è di per sé determinante per la modifica anagrafica di genere

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Roma – Non è necessario sottoporsi a un intervento chirurgico che modifichi i “caratteri primari sessuali”, ossia gli organi genitali e riproduttivi, per ottenere la rettificazione di genere all’anagrafe. Lo ha sancito la prima sezione civile della Cassazione, accogliendo il ricorso di un 45enne che nel 1999 aveva ottenuto dal tribunale di Piacenza l’autorizzazione al trattamento medico chirurgico per diventare donna: dopo 10 anni, però, aveva chiesto di poter rettificare i propri dati anagrafici senza sottoporsi all’intervento, temendo le “complicanze di natura sanitaria” ed affermando di aver già “raggiunto un’armonia con il proprio corpo, che lo aveva portato a sentirsi donna a prescindere dal trattamento”.

Il tribunale aveva rigettato l’istanza, sostenendo che il trattamento chirurgico fosse “condizione sufficiente ma necessaria”, conclusione condivisa anche dalla Corte d’appello di Bologna. La Suprema Corte ha invece accolto il ricorso, e decidendo nel merito, ha detto sì alla domanda di rettificazione di genere da maschile a femminile, ordinando agli ufficiali dello stato civile competenti le modifiche anagrafiche competenti.

L’interesse pubblico alla definizione certa dei generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali – si legge nella sentenza depositata oggi – non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico fisica sotto lo specifico profilo dell’obbligo dell’intervento chirurgico inteso come segmento non eludibile dell’avvicinamento del soma alla psiche”.

Per i giudici di piazza Cavour, infatti, “l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale”.

La Cassazione rileva quindi che “la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non può che essere una scelta espressiva dei diritti inviolabili della persona, sacrificabili soltanto se vi siano interessi superiori di carattere collettivo da tutelare espressamente indicati dal legislatore”, mentre “il silenzio della legge sulla specificazione relativa ai caratteri sessuali da modificare costituisce un indicatore rilevante in ordine all’insussistenza di interessi collettivi superiori”.

Inoltre “ci possono essere – si legge ancora nella sentenza – casi in cui l’adeguamento chirurgico non è possibile per ragioni di salute, trattandosi di interventi invasivi e non ancora fondati su una tecnica chirurgica sicura. È pertanto sempre necessario procedere al bilanciamento del diritto all’identità personale e del diritto alla salute con una prevalenza del secondo sul primo, purché – spiega ancora la sentenza – in presenza di una diagnosi di disforia di genere e di una modificazione certa dei caratteri sessuali secondari“, quali conformazione del corpo, timbro di voce, atteggiamento e comportamenti esteriori, “attraverso interventi di chirurgia estetica e terapie ormonali”.

Quanto alla condizione di sterilità, annoverata dalla Corte d’appello di Bologna tra le ragioni per sostenere la necessità dell’intervento chirurgico per la rettifica di genere, la Suprema Corte osserva che “essere sterile non può essere una condizione ineliminabile per la rettificazione degli atti anagrafici e ciò perché la legge non lo prevede espressamente; il giudice non può aggiungere tale condizione attesa la riserva di legge di cui all’articolo 32 della Costituzione (tutela della salute e divieto di trattamento sanitario obbligatorio, ndr); in ogni caso – conclude la sentenza – sarebbe violata da dignità della persona umana“.

(AGI)

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