Crisi siriana, Paesi del Golfo chiudono porte ai profughi. Appello alla pace dall’inviato speciale Onu De Mistura

Dalle petromonarchie del Golfo Arabico/Persico alcuna politica di accoglienza per i rifugiati in fuga dalla guerra. Motivo: possibili squilibri demografici e il timore di “infiltrazioni” di truppe di Assad mantengono sigillate le frontiere. Esperto Rusi: le richieste dei diplomatici occidentali cadono nel vuoto. Staffan de Mistura come Monsieur de La Palice: “senza pace non finirà l’esodo dei profughi” (chi l’avrebbe mai detto?)…


Beirut – I Paesi del Golfo hanno chiuso le porte alle centinaia di migliaia di profughi in fuga dalla guerra siriana. Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, i più vicini per sensibilità, cultura e religione, non hanno voluto finora promuovere politiche di accoglienza adeguate all’esodo.

In questi giorni le immagini dei siriani ammassati lungo i confini europei, stipati alle stazioni di autobus e treni, e la foto del cadavere del piccolo Aylan riverso sulla spiaggia hanno fatto il giro del mondo, creando profondo sdegno e commozione. Mentre in Occidente ci si interroga su quali politiche adottare per rispondere all’emergenza causata dalla guerra – peraltro sostenuta dal Qatar, sponsor dei jihadisti sunniti che operano in Siria – e la crisi si fa sempre più acuta; gli Stati del Golfo Arabico/Persico chiudono le frontiere per scongiurare “una invasione”.

A fronte della chiusura da parte dei governi statali, a titolo individuale e organizzato singoli individui e organizzazioni umanitarie dei Paesi del Golfo hanno stanziato centinaia di migliaia di dollari per rispondere alla crisi dei migranti della Siria. Lavoratori di compagnie petrolifere come la Qatar Petroleum, rivela Michael Stephens, analista del Royal United Services Institute (RUSI) con base a Londra, hanno devoluto parte del proprio stipendio. Tuttavia, garantire cibo e alloggio “era una soluzione per il problema di ieri”, mentre oggi il punto è garantire “a centinaia di migliaia di persone un posto in cui vivere”.

In una analisi pubblicata dalla Bbc, l’esperto del Rusi avverte che dai Paesi del Golfo non è emersa “una politica concreta” in tema di accoglienza e solo alcuni lavoratori migranti con regolare permesso di soggiorno hanno potuto sinora varcare i confini di alcune di queste nazioni. Su tutte l’Arabia Saudita, che ha accolto 500mila siriani dal 2011, anno in cui è scoppiata la rivolta contro il presidente Bashar al-Assad, poi diventata una guerra su più fronti.

Fra le ragioni di questa chiusura, vi sarebbe il timore dei governi della regione – in particolare di Qatar, Arabia Saudita ed Emirati – di un ingresso di “potenziali lealisti di Assad” all’interno dei propri confini. A questo si aggiunge il pericolo di un “eventuale squilibrio demografico” in nazioni in cui i rapporti fra gruppi etnici, religiosi e sociali sono da sempre un tema delicato all’interno della macchina statale.

I Paesi del Golfo funzionano in questo modo – spiega Stephens – con un forte ricambio nella manodopera ad alta e bassa specializzazione”. Questa politica permette alle popolazioni indigene arabe “di mantenere il loro status dominante”, respingendo possibili invasioni “di arabi provenienti da altri Paesi o di lavoratori dell’Asia meridionale”.

Per questo l’idea di “migliaia di stranieri in ingresso”, aggiunge, “senza un lavoro o una data certa per il rientroin patria, è una prospettiva “alquanto scomoda per i Paesi del Golfo”. Inoltre, conclude il ricercatore del RUSI, le élite governative dell’area ritengono che “questo pasticcio” non sarebbe mai natose l’Occidente avesse risolto per tempo la questione Assad” e oggi “le richieste dei diplomatici occidentali rischiano di cadere nel vuoto”.

Una visione semplicistica del marasma siriano, in cui entrano in gioco fattori geopolitici che implicano l’Iran, attore non arabo nel Golfo e spauracchio nucleare in tutta la regione, notoriamente a fianco del dittatore siriano, che però non è combattuto dai missionari della San Vincenzo, ma da autentici reietti dell’Umanità, con in mente la soggiogazione del mondo al fondamentalismo sunnita. Insomma, in tema le case regnanti del Golfo bisognerebbe facessero un esame di coscienza (ammesso e non concesso…).

Intanto in queste ore prosegue incessante il lavoro dell’inviato speciale Onu per la Siria, Staffan de Mistura, l’uomo per tutte le stagioni e ogni tipo di fallimento.

De Mistura, vestendo i panni di Monsieur de La Palice, ha avvertito tautologicamente: “se la comunità internazionale non raggiungerà a breve” un accordo di pace, vi saranno “molte altre migliaia di profughi”.

Il solo vincitore di questo conflitto quinquennale – che ha già causato quasi 250mila vittime – è per De Mistura “Daesh”, ossia l’Isis, il sedicente Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham, autoproclamatosi califfato il 30 Giugno 2014.

Al momento, ricorda il diplomatico svedese naturalizzato italiano, “fino a un milione di persone che vivono nella Siria occidentale sono potenzialmente a rischio” e potrebbero aggiungersi alla massa accalcata in queste settimane alle porte dell’Unione Europea.

Secondo De Mistura, dopo 11 milioni di sfollati e quattro milioni di rifugiati, “è tempo di trovare una soluzione… altrimenti non ci sarà più nemmeno un siriano” in Siria. Una visione corretta, che però ha la finalità di elimnare dalla vita di quel Paese Bashar al-Assad e di impedire alla Russia di esercitare il proprio sostegno a quello che comunque rimane il governo legittimo del Paese.

Da parte sua, Assad dovrebbe porsi il problema di un piano di pace che comprenda una sua uscita di scena, con garanzie di esilio sicuro e garantito, ma il tema non è tanto la permanenza al potere degli alawiti, quanto la loro sopravvivenza fisica (anche come minoranza religiosa) e il potere che le sataniche truppe jihadiste potrebbero imporre sulla Siria, sottraendola per molto tempo alla contemporaneità e a ogni scenario di ritorno alla normalità.

(Credit: AsiaNews) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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