Kissinger ‘boccia’ la politica estera di Obama: “è più importante eliminare l’ISIS che detronizzare Assad”

L’ex Segretario di Stato, una delle menti più fine dell’establishment statunitense, non le manda a dire all’attuale inquilino della Casa Bianca. “Serve un nuovo ordine mondiale” fondato sulle grandi potenze, chiamate a collaborare per risolvere i problemi contemporanei. Giovedì prossimo si celebra il “secondo Congresso di Vienna”, un evento organizzato dal Research Center Human Rights dell’Università di Vienna. Sull’accordo con Teheran lancia il monito: non ci sono simmetrie, Teheran minaccia il mondo e Israele

Vienna – Se il mondo sembra girare alla rovescia un motivo c’è: le grandi potenze hanno abdicato alla funzione regolatrice degli affari internazionali, soccombendo ai movimenti transnazionali – proliferati con il processo della globalizzazione – che hanno preso il sopravvento senza possederne la responsabilità politica per farlo in un ‘gioco’ bilanciato di opportunità e rischi. Su questa linea sottile, Usa e Urss poterono confrontarsi – su ogni piano: militare, politico, sociale, valoriale – senza mai giungere allo scontro finale, che avrebbe eliminato entrambi i fronti.

Serve dunque una sorta di ritorno al passato, che in realtà è l’elaborazione aggiornata del paradigma realista di cui Henry Kissinger è stato uno degli esponenti principali del XX Secolo.

A 92 venerabili anni, dopo averne viste (e fatte) di tutti colori a servizio degli Stati Uniti – dove la famiglia era fuggita per scampare alla barbarie nazista – Kissinger dalle colonne del Wall Street Journal ha tirato un clamoroso ceffone a Barack Obama, richiamandolo alla responsabilità del presente e bocciando su tutta la linea la politica estera americana sotto il 43° inquilino della Casa Bianca.

In un editoriale dal titolo significativo – “A Path Out of the Middle East Collapse” (‘Un percorso fuori dal collasso del Medio Oriente’, ndr) – l’ex Segretario di Stato di Nixon e Ford rileva: “Tutti gli equilibri geopolitici del Medio Oriente sono a pezziL’America ha bisogno di una nuova strategia, oggi stiamo perdendo la nostra capacità di condizionare gli eventi”. E ancora, giù duro: “Un accordo con Vladimir Putin può essere compatibile con i nostri obiettivila distruzione dello Stato Islamico è più urgente della cacciata di Assad“.

Il trionfo del realismo, cui peraltro anche il presidente Putin – da tecnico ‘operatore’ delle relazioni internazionali – è affezionato e sulla base del quale ha mosso le truppe verso la Siria, modificando gradualmente la sua posizione da una difesa strenua di Bashar al-Assad a un’apertura sul possibile avvicendamento al potere nel quadro di una soluzione politica della guerra civile in Siria.

L’accordo con la Russia (e la Cina) sarebbe anche l’antidoto per non prendere parte a quella che appare come una lotta tra Stati e confessioni musulmane, con il fronte sunnita rappresentato da Giordania, Egitto, Arabia Saudita e monarchie sunnite del Golfo da una parte e il fronte sciita costituito da Teheran, che spinge sulla regione a partire dal sostegno alla Siria di Assad (che è alawita, una confessione appunto sciita), la parte sciita dell’Iraq, la parte sciita del Libano, dove operano le milizie di Hezbollah (finanziate da Teheran), e le fazioni Houthi in Yemen.

Kissinger spiega nell’editoriale un concetto: gli Stati sunniti temono più un rafforzamento dell’Iran sciita che uno Stato Islamico, ritenuto più vicino alle posizioni sunnite. E a farne le spese è proprio la popolazione siriana, che subisce le spinte geopolitiche indotte dall’azione di un’organizzazione transnazionale, l’ISIS – forma di statualità non Westafaliana – che punta a “a sostituire la molteplicità di Stati del sistema internazionale con un califfato, un unico impero di diritto islamico fondato sulla Sharia”.

In questo scenario, l’intervento della Russia è di tipo classico e costituisce un atto politico in mezzo all’assenza di idee, in primis perché non teso a difendere in modo indefinito Assad. In secundis, perché applicazione geopolitica pura, rivolta a depotenziare le potenziali minacce provenienti sulle frontiere sud-occidentali del territorio russo (Medio Oriente), per evitare possibili infiltrazioni nel Caucaso; e da quelle meridionali, come dimostrato dal Summit di Burabai che ha deliberato la task force per contrastare i pericoli jihadisti in Asia Centrale. Una “geopolitica non idelologica”

La lettura di Kissinger della realtà contemporanea è lucida ed evoca la responsabilità delle grandi potenze di fronte ai problemi comuni dell’Umanità, solvibili solo con azione comune. Lo richiedono la gravità delle questioni e delle possibili soluzioni.

La bocciatura di Obama da parte di Kissinger è netta e riguarda anche l’accordo sul nucleare iraniano, che l’Alta Rappresentante per la Pesc dell’Unione Europea, Federica Mogherini, ha salutato con giulivo giubilo. Un tema su cui il ceffone dell’ex Segretario di Stato sotto Nixon e Ford a Obama e Kerry riecheggia dalla costa orientale degli Stati Uniti, ma l’onda lunga del ceffone arriva a Bruxelles e ai burocrati illegittimi della Commissione Europea (qualificazioni e grassetto sono nostri).

Sbaglia chi paragona le aperture di Obama a Teheran alle aperture di Nixon alla Cina nel 1971 e l’errore è fondato su un paio di clamorosi errori.

Anzitutto, “l’apertura alla Cina del 1971 si basava sul riconoscimento reciproco” di Washington e Pechino, tesa a depotenziare l’influenza sovietica in Eurasia, interesse comune delle due superpotenze. Le “42 divisioni sovietiche che costeggiarono il confine sino-sovietico rafforzarono questa convinzione”. Con Teheran oggi “non esiste alcun accordo strategico comparabile”. Al contrario, ricorda Kissinger alla cricca ignorante (nella più rosea delle visioni) che presiede le istituzioni americane in questo momento, “nel periodo immediatamente successivo l’accordo nucleare, il leader supremo iraniano, Ayatollah Ali Khamenei, ha descritto gli Stati Uniti come il ‘Grande Satana’ e ha respinto i negoziati con l’America su questioni non nucleari”. Per non parlare del fatto che “Khamenei ha anche previsto che Israele non esisterà più in 25 anni”, unico esempio di uno Stato membro dell’Onu che dichiara espressamente l’obiettivo di cancellarne un altro, mettendosi sotto i piedi la Carta di San Francisco e i valori delle Nazioni Unite.

In secondo luogo, manca la simmetria delle convenienze, perché l’evoluzione delle relazioni sino-americane ebbero immediati effetti distensivi, mentre con Teheran ci si affida alla forza dell’economia, capace di cambiare le abitudini degli iraniani più a contatto con il mondo esterno. Sul piano strategico l’Iran otterrà il beneficio dell’attenuamento delle sanzioni e un rallentamento del programma nucleare con finalità militari, non una oggettiva chiusura. Il beneficio per l’America risiede “in una promessa di condotta iraniana in un periodo di tempo”, non nella ridefinizione integrale delle relazioni in un quadro di normalizzazione.

Insomma, un editoriale che assume il valore di una grande lezione di geopolitica e di relazioni internazionali, che lancia l’idea di “un nuovo ordine mondiale”, inteso come un “meccanismo attraverso cui le maggiori potenze possano consultarsi e cooperare sui temi più importanti“. Pensare alla riforma profonda delle Nazioni Unite – da amanuensi delle relazioni internazionali – è la conseguenza più diretta, con il dovere di ricordare che l’attuale assetto sorse alla fine della II Guerra Mondiale e sopravvisse alla Guerra Fredda (III Guerra Mondiale). Anzi, l’Onu fu la camera di compensazione perché quella battaglia non si trasformasse da periferica e a bassa intensità in conflagrazione generale a esiziale intensità.

Oggi, in piena Guerra Mondiale (come ampiamente argomentato in queste colonne, la IV GM) a episodi, i 200 anni del Congresso di Vienna sono l’occasione per tornare a dibattere di un nuovo ordine, che dia stabilità al mondo, iniziando con la debellatio del pericolo jihadista: eliminazione militare, anzitutto, politica, religiosa e culturale in subordine.

Argomenti su cui si rifletterà nel “secondo Congresso di Vienna”, un evento che riunirà esperti di geopolitica nella arriveranno nella capitale austriaca da Usa, Russia, Cina, Europa, Medio Oriente, alla presenza di osservatori di diversi governi. Kissinger parteciperà giovedì prossimo a una sessione in videoconferenza dell’evento organizzato dal Research Center Human Rights dell’Università di Vienna, dal Ludwig Boltzmann Institute of Human Rights e con la cooperazione di Joel Bell e la Chumir Foundation for Ethics in Leadership di Alberta.

I contributi per questo convegno, nel 200° Anniversario del Congresso di Vienna, non sono una celebrazione del passato, ma un modo per pensare il futuro alla luce dei problemi del mondo contemporaneo. Sono attesi gli interventi di studiosi delle università di tutto il mondo – come Harvard, Columbia, Georgetown, Oxford – e consolidati think tank internazionali, oltre che della accademie di Stato di Mosca e Pechino. Tra gli osservatori anche la Comunità di Sant’Egidio.

Nelle sessioni sarà applicata la ‘Chatham House Rule‘: ossia non saranno diffuse dichiarazioni virgolettate con nomi dei partecipanti, ma principi e idee enunciate e sui cui i convenuti hanno riflettuto e ragionato in un ambiente di reciproco rispetto e di comprensione che i problemi comuni non possono che trovare soluzioni comuni.

(Foto Wikipedia, credit Adnkronos, WSJ) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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