Creed – Nato per combattere, Ryan Coogler e lo spin-off che riscatta la serie

Il regista di “Prossima fermata Fruitvale Station” costruisce sul filo dell’emozione e della nostalgia un film fortemente voluto e sentito

C’è una scena ben precisa all’interno di Creed, in cui Ryan Coogler riprende un incontro improvvisato in palestra tra il protagonista, smanioso di dimostrare di valere qualcosa nonostante sia praticamente uno sconosciuto e, cosa più importante, autodidatta, e il numero due nel ranking mondiale dei pesi mediomassimi: Coogler ricostruisce il match attraverso un piano sequenza in cui la macchina da presa passa dal trovarsi accanto a Adonis Johnson a prenderne il posto, quasi a volerci far sentire la sua voglia sbruffona e il suo essere completamente sconsiderato nell’affrontare chi invece è stato allenato per quell’unico scopo. Così, sentiamo i colpi che l’avversario sferra, e li sentiamo direttamente sulla nostra pelle in un processo di identificazione che, posto ad inizio pellicola, serve ad accelerare quel sentimento di empatia che il pubblico proverà per il giovane pugile figlio d’arte fino alla fine. È naturale, quindi, andare al tappeto.

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Servirebbe solo questa piccola scena a spiegare perché Creed possiede tutti quegli elementi che la saga di Rocky aveva progressivamente perso lasciando il posto ad una rincorsa folle e insulsa al botteghino. Ryan Coogler ha costruito un film sicuramente figlio del suo tempo, che funziona proprio perché il suo autore è perfettamente intercambiabile con lo spettatore che da anni simpatizza, a volte anche a malincuore visti i risultati artistici (vedi i pessimi capitoli che hanno seguito il bellissimo prototipo del 1976), per una serie che imbastiva una struttura di racconto rigida, canonica, ma che virava spontaneamente nel territorio di un sincero sentimentalismo. Il medesimo tentativo di Coogler, che scrive e dirige questo settimo capitolo della serie, restituisce dignità, passione nel racconto e, in sostanza, cuore a una saga considerata da tempo già morta e sepolta. Lo fa con intelligenza, mestiere (nonostante sia solamente il suo secondo film) e attenzione ai piccoli dettagli che hanno svuotato e reso uno sport un tempo umile come la boxe un’accozzaglia pubblicitaria e cafona. Costruisce un personaggio pescato dal nulla e gli affianca la leggenda. Evita le grosse cadute di stile, i richiami nostalgici sono studiati a tavolino, ma funzionano, e quando riecheggia il tema di Bill Conti è impossibile rimanere indifferenti.

Michael B. Jordan, che aveva già prestato il suo corpo e il suo volto per l’esordio del regista (Prossima fermata Fruitvale Station), fa il suo dovere senza strafare, senza ricalcare in maniera dissacrante né la figura compassionevole di Rocky Balboa né quella molto più sbruffona di Apollo Creed, ma rendendo il suo personaggio comunque credibile e adatto ai tempi. Sylvester Stallone ha ormai raggiunto una confidenza con il suo iconico personaggio tale da rasentare l’innesco di un immaginario pilota automatico.

Il grande (e per molti versi, inaspettato) successo negli Stati Uniti ha già dato il via alla pre-produzione del prossimo sequel, che uscirà nelle sale nel novembre 2017.  

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