Steve Jobs, l’umanità del genio nel film di Danny Boyle

Scritto da Aaron Sorkin, a cui va la completa paternità dell’operazione, è un biopic affascinante e coraggioso anche se non privo di difetti

Pochi minuti prima del lancio del Macintosh, il brillante inventore Steve Jobs deve fare i conti con gli intoppi dell’ultim’ora e non può più evitare le pressanti richieste dell’ex fidanzata Chrisann, che vive di sussidi governativi e che vede il fondatore della Apple rifiutare di riconoscere la figlioletta Lisa; 1988. Accompagnato dalla fedele Joanna, e dopo aver ricevuto il benservito dal consiglio d’amministrazione della Apple, Steve sta per lanciare il NeXT Computer; il nuovo prodotto è destinato al fallimento per la mancanza di un OS adeguato, ma i piani dell’inventore sono altri; 1998. Tornato a ricoprire la carica di CEO presso la società da lui fondata, Steve deve risollevare le sorti della compagnia, a un passo dal insolvenza. L’ultima speranza è rappresentata da una nuova concezione di personal computer: è un successo annunciato. Tuttavia, i problemi famigliari, soprattutto con la figlia Lisa, non hanno mai smesso di perseguitarlo.

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Dopo aver raccontato una delle figure più ammalianti, innovatrici ed enigmatiche del nostro tempo in un film talmente canonico da essere quasi considerato un’eresia (Jobs, 2013), ci voleva la penna e la lucida intelligenza di Aaron Sorkin per donare dignità cinematografica a colui che, in qualsiasi modo lo si voglia raccontare, ha cambiato il modo che le persone hanno di percepire la realtà circostante. La frenesia insieme a una freddezza irritante e conciliante al medesimo tempo; la struttura in tre atti, che sembra rimandare alla forma teatrale, così come teatrali sono le interpretazioni di un cast in stato di grazia – uno straordinario Michael Fassbender riesce a far suo un personaggio con cui certo non condivide i tratti somatici, ma la vera forza dello script e del film in generale è rappresentata dagli ottimi comprimari – che lo rendono uno dei prodotti corali più affascinanti dell’anno. Sorkin descrive, ammicca, suggerisce e sprona il proprio pubblico ad empatizzare con un personaggio che fino a pochi anni fa era considerato un guru intoccabile, ma che nella riproposizione cinematografica viene costantemente analizzato e fatto a brandelli (così come accadeva, ma in forma diversa, nel bellissimo documentario Steve Jobs: The Man in the Machine).

Un film stratificato a più livelli (quello famigliare, quello dei rapporti interpersonali con amici e sottoposti, nonché superiori, quello della macchina corrosiva del business e, infine, quello più affascinante del “campo di distorsione della realtà” che è la base della costruzione di ogni figura che si appresta a diventare mitica), eppure esposto in maniera semplice e diretta; gettato in pasto a uno spettatore che viene bombardato da una miriade di informazioni e input e cui più tardi spetterà il compito di organizzarli, al fine di costruirsi il proprio quadro di riferimento verso un personaggio scandagliabile in ogni suo punto, ma di difficilissima comprensione.

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Perché allora la parola capolavoro non fuoriesce mai dal discorso appena imbastito? Per la stessa ragione per cui non abbiamo ancora fatto riferimento al regista di questo anomalo biopic: Danny Boyle. Non si vuole fare del regista di Trainspotting un capro espiatorio, né tantomeno ergerlo ad unico difetto di un film che al suo interno soffre di parecchie indecisioni, anche a livello drammaturgico (perfino Sorkin, pur volendoci suggerire il contrario, non è perfetto). Sarebbe bastato assecondare (o manipolare) un po’ di più la scrittura, invece Boyle, che di certo non è un mestierante qualsiasi, vuole costantemente far sentire la sua presenza: invece di risultare creativo e ispirato, man mano che il film procede diventa irritante, invadente e oppressivo nei confronti di un quadro narrativo e visivo cui sarebbe bastata l’attenzione maniacale (che a tratti non manca affatto) della messa in scena. Così come un altro regista dal pugno di ferro avrebbe certamente contenuto gli eccessi di retorica di Sorkin, che se nel (quello si) capolavoro contemporaneo The Social Network sfoderava un sarcasmo corrosivo, qui al massimo possiamo parlare di velata ironia. Il colpo di genio, almeno teorico, non manca: i tre segmenti della storia sono stati girati in tre diversi formati, 16mm, 35mm e digitale. Nota a margine per le ottime musiche firmate da Daniel Pemberton.     

Steve Jobs, candidato a due premi Oscar, è da oggi presente nelle sale italiane.

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