Dalton Trumbo e i dieci ribelli di Hollywood nel biopic con Bryan Cranston

L’11 febbraio uscirà nelle sale L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, storia dello sceneggiatore due volte premio Oscar che si oppose al Congresso americano

Terminata la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, un tempo alleate, dettero il via a una soffocante guerra di tensione, la Guerra Fredda. Fu il momento in cui prese il via, in maniera paranoica e spudorata, l’operato della Commissione per le attività antiamericane, nata ufficialmente nel 1938, ma riformata radicalmente al termine del secondo conflitto mondiale. La Commissione, ossessionata dai membri del Partito Comunista americano, che si rifaceva alla dottrina stalinista (quando ancora le due potenze erano strette alleate contro Hitler), cominciò a riversare la sua collera non solo tra gli ambienti statali, bensì anche nel cinema e a Hollywood.

Dalton Trumbo, insieme ad alcuni stimati colleghi e amici – denominati  i Dieci di Hollywood – si oppose a questa caccia alle streghe da parte della Commissione, rifiutandosi di ammettere se fosse iscritto o meno al partito, prima alleato, ma che ora rappresentava una minaccia per la sicurezza nazionale.  

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“Ci sono tante persone ignoranti e arrabbiate nel mondo. Sembrano crescere in numeri da record.”

È lo stesso Trumbo a pronunciare queste parole, nel film impersonato da un Bryan Cranston costantemente sopra le righe, come il vero personaggio amava essere; una frase che sancisce la netta presa di posizione di un prodotto che non mira a essere una celebrazione né del suo personaggio né di tutte quelle persone che da sempre si battono contro le evidenti ingiustizie alimentate dalla paura per il diverso. Nell’incredibile vicenda del più famoso e stimato tra gli sceneggiatori americani dell’età dell’oro di Hollywood, così come è innegabile uno sguardo nostalgico a quei tempi, allo stesso modo si mettono sotto la lente d’ingrandimento le enormi mostruosità che alcune persone dovettero affrontare in quello che da sempre si proclama come “un Paese libero”.

Nella pellicola di Jay Roach (che qui attua un taglio netto con le sue precedenti produzioni), l’agiografia del personaggio principale segue di pari passo lo sviluppo della vicenda che portò alle cosiddette liste nere di Hollywood, liste che furono abolite definitivamente nel 1960, quando lo stesso Trumbo fu accreditato del successo di due grandiose pellicole come Exodus di Otto Preminger e Spartacus di Stanley Kubrick. Più tardi lo scrittore sarebbe stato risarcito dei due premi Oscar vinti, sotto falso nome, per Vacanze romane e La più grande corrida.

Purtroppo, la componente critica del film viene meno fin troppe volte, o è esibita in maniera asfissiante in altri momenti; il personaggio principale non ha quasi mai dubbi e la sua costruzione appare più stereotipata che aderente alla realtà dei fatti (Trumbo ci è presentato fin da subito come un convinto sostenitore del Partito Comunista, ma non viene mai fatto alcun riferimento al motivo per cui ha scelto di perseguire tale ideale anche dopo la fine del secondo conflitto). L’attacco alla stampa mondana dell’epoca è evidente, d’altra parte non si nota alcun riferimento alla controparte di sinistra (quella decisamente meno diplomatica dei personaggi qui rappresentati). Soprattutto per questi motivi, la seconda parte del film è decisamente la più riuscita, superato infatti il caos d’informazioni della prima mezz’ora.

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L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo è un film che potrebbe tranquillamente essere proiettato all’interno delle aule di scuola di tutto il mondo, forte di un didascalismo selettivo e potente che sceglie coscientemente da che parte stare e a chi rivolgersi; è ugualmente una eccezionale dimostrazione di bravura per il suo affiatato cast: da un proverbiale Cranston, al sorprendentemente ispirato Louis C.K., da una Helen Mirren acida e respingente al punto giusto alla contagiosa simpatia di John Goodman, tutti hanno la loro scena madre. E forse è il vero problema di questo, in fin dei conti, canonico biopic: l’accumulo sempre maggiore di scene madri, e una mancanza di equilibrio narrativo che alla lunga lascia quasi indifferenti al prodotto finito. Ed è un peccato.  

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