Pericolo attacchi jihadisti islamici: servono tempi di risposta più brevi

L’esperienza maturata nell’analisi degli attacchi jihadisti islamici in ambiente di guerra urbana mostra come sia fondamentale la rapidità della reazione attiva per limitare i danni. Non solo in ambito militare, ma anche in ambito medico-sanitario e informativo

Milano – Dall’esperienza maturata negli attacchi jihadisti condotti in ambiente urbano – dal blitz a ‘Charlie Hebdo’ in poi – appare evidente uno scenario operativo stabile: il tempo di “attivazione” del jihadista combattente/terrorista è di circa 6/7 minuti, fino a un massimo di 20, un tempo che può dilatarsi ancora in una situazione di “barricamento con ostaggi”, in cui il tempo di riattivazione è di circa due ore.

Nel mondo del soccorso extraospedaliero – nonostante un’apposita legge che fissa i tempi di intervento dei mezzi di soccorso in 8 minuti in città e 20 fuori città – la prassi reale rimane sempre intorno ai 15/20 minuti. Così come si è fissato il tempo di intervento standard dei team tattici di primo intervento, specializzati ormai a muoversi in 20 minuti in tutta Europa (se non per legge, per “circolare” interna), almeno in una situazione in cui non sia necessario un ‘rischieramento’ da una località all’altra: al contrario, le forze speciali necessitano di un tempo più elevato per raggiungere lo scenario di crisi, che può arrivare anche a 4 ore per intervenire al 100% delle capacità.

Il tetto fissato per legge per i soccorsi extraospedalieri non ha però aiutato a risolvere il problema di base: un arresto cardiaco, un’emorragia critica o qualsiasi serio politrauma uccide il paziente in circa 6/7 minuti in maniera irreversibile. E così si è creato un mondo complesso (e costoso) di automediche ed elicotteri che si arrivano e incidono sanitariamente in maniera poco efficace su persone già morte in maniera irreversibile, nonostante la presenza di equipe qualificate ed equipaggiamenti avanzati.

L’analisi degli incidenti terroristici mostra un andamento simile: la durata degli ingaggi a fuoco, spesso del tutto incontrastati, da parte dei terroristi è di circa 6/7 minuti; la decisione di fare vittime oltre il tempo del primo attacco scatta a poco più di 2 ore dalla situazione di barricamento, rendendo i nostri speciali reparti civili e militari “fuori tempo massimo” per un efficiente intervento salvavita, nonostante preparazione top ed equipaggiamenti idonei allo scopo. La decisione ‘politica’ dell’intervento spesso ha reso inutile il dispiegamento.

Appare dunque necessario costruire localmente altre capacità, come si è fatto spontaneamente nel campo del soccorso, creando i primi soccorritori aziendali e sportivi tra i cittadini stessi, distribuendo i defibrillatori (e i kit di primo soccorso, anche se la legge andrebbe rivista: ma non è questa la sede per parlarne). Dove i mezzi di soccorso trovano il cittadino educato, addestrato ed equipaggiato, i pazienti solitamente si salvano, così come avviene in presenza di personale di salvataggio intermedio, addestrato anche alla rianimazione ed alla traumatologia: si pensi al salvataggio acquatico e ai sommozzatori, che intervengono nella catena del soccorso prima di ambulanze ed automediche.

Per la risposta al terrorismo è allora obbiettivamente necessario agire su un doppio binario (a meno che non si voglia considerare perse ab initio le vite delle prime persone coinvolte):

A) da un lato, aumentare la resilienza della comunità locale, spiegando in maniera preventiva i comportamenti da tenere durante e dopo un evento terroristico; come soccorrere i feriti; come cooperare con le Forze di Polizia ed Armate schierate sul teatro delle operazioni;

B) dall’altro creare un sistema di difesa ravvicinato, di prossimità, iniziando a richiamare militari della ‘Riserva’ – come previsto in altri Paesi in situazioni di emergenza nazionale – addestrarli nello specifico al mutato scenario bellico in contesto urbano e schierarli sul campo laddove la minaccia si presenti maggiore.

Un team di difesa ravvicinata, ad esempio di quartiere o presente nel piccolo centro di provincia dove è presente spontaneamente una unità della Riserva, consentirebbe ai team di primo intervento ed alle forze speciali di trovare sul terreno una condizione informativa e operativa già più chiara. Altrettanto, eventuali iniziative di cittadinanza attiva, non soltanto di resilienza, permetterebbero di far giungere utili informazioni ai corpi di intelligence nazionale, debitamente filtrate già su base locale dalla forze di polizia presenti sul territorio.

Gli strumenti giudirici ci sono, anche in Italia, per un nuovo tipo di ‘Riserva’, così come tante sperimentazioni di progetti di resilienza e di cittadinanza attiva, anche con ottimi risultati e costo molto limitato. Basta solo avere il coraggio politico e legislativo di applicare le norme e di approvarne di nuove, se necessario.

Quel che non serve è l’inazione.

(Photo Credit: Reuters) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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