Dopo il massacro di Rouen: lezione non appresa. Serve cambio di paradigma operativo

Ancora una volta è stato dimostrato che i primi minuti sono decisivi per gli effetti di un attacco jihadista. Si deve cambiare il paradigma di intervento, ma occorre soprattutto comprimere i tempi di risposta e lo si può fare solo in due modi, come già nel 2013 ricordava il Segretario Generale dell’Interpol, Donald Noble

Verona – A due giorni dal primo martirio cristiano del XXI Secolo in Europa, il sacrificio di padre Jacques Hamel resta paradigmatico per alcuni motivi. Cerchiamo di analizzarne alcuni.

Partiremo dal tragico epilogo: non c’è stato alcun assalto delle unità speciali della Polizia Giudiziaria di Rouen – BRI, Brigades de Recherche et d’Intervention  – nella chiesa di Saint-Étienne de Saint-Étienne-du-Rouvray, cittadina di oltre 28mila abitanti, facente parte della città metropolitana di Rouen, da cui dista una decina di chilometri. Abdel Malik B. e Adel Kermiche, i due jihadisti islamici diciannovenni autori della profanazione della chiesa e della decapitazione di padre Jacques Hamel, sono stati abbattuti dai cecchini della Police Nationale.

Seconda osservazione, i due jihadisti hanno potuto accedere al luogo di culto dall’ingresso posteriore della sagrestia, di libero accesso, non incontrando alcuna resistenza.

Terzo, ancora una volta i primi minuti dell’incursione si sono rivelati decisivi per il successo mortifero dell’azione. Non tutti i centri di aggregazione sociale di qualsivoglia natura possono essere protetti dalle forze di polizia o dalle forze armate, serve una ‘difesa di punto’ complementare, sussidiaria, per impedire l’avvio di un attacco avente caratteristiche di velocità ed estemporaneità, non per fronteggiarlo.

Infine, si è intentata una sorta di negoziato iniziale con i due jihadisti, che però avevano già ucciso padre Hamel e ferito uno dei due fedeli partecipanti alla Santa Messa.

Se ne desume che la lezione da trarre dagli attacchi jihadisti in Francia e Germania – da Charlie Hebdo all’attacco di Ansbach non è stata appresa.

Gli aderenti al progetto neocaliffale dello Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham (ISIS) – strutturati o meno che siano – non agiscono per ottenere uno scopo immediato, ma per infliggere perdite immediate sul nemico (noi) in termini di vite umane e devastazione materiale, con il fine psicologico di piegare la resistenza politica contraria alla loro azione, in Medio Oriente e nelle nostre città occidentali.

Classificare gli attacchi jihadisti come atti criminali è un errore: si tratta di atti di guerra in contesto urbano, che non prevedono la presa di ostaggi e la sopravvivenza degli attaccanti, i quali mettono in conto di immolare la propria vita alla gloria di Allah e di uccidere quanti più infedeli possibile.

Serve per questo motivo un cambiamento di paradigma operativo multidimensionale, che parta da una considerazione di base (impossibilità di difendere tutti i luoghi pubblici con agenti delle Forze dell’Ordine o militari) e da una conseguenza dalla duplice coniugazione per affrontare il campo di battaglia urbano in condizioni di parità tattica.

Se è impossibile difendere ogni obiettivo sensibile (perché tutti noi siamo obiettivi sensibili, in ogni luogo e a qualsiasi ora), se ne desume che la difesa da attacchi jihadisti può attuarsi in due modalità complementari:

  • perimetrando i luoghi di aggregazione sociale (pubblici e privati), quali scuole, ospedali, centri commerciali, teatri, luoghi di culto, con un cordone di sicurezza privata in grado di rintuzzare o impedire un attacco nella fase iniziale;
  • armando la cittadinanza, in un quadro giuridico definito, che consenta a persone di provata affidabilità democratica di partecipare attivamente al sistema di difesa e sicurezza nazionale in una condizione di guerra urbana, formando specificamente sul tema nell’utilizzo delle armi, nelle nozioni di primo soccorso ‘combat’ e nelle comunicazioni istituzionali di emergenza.

Se queste due misure sembrassero al lettore del tutto prive di fondamento, è indispensabile precisare che sono state proposte da una fonte più che autorevole, il Segretario Generale dell’Interpol, Donald Noble, all’indomani dell’attacco jihadista al Waste Gate Mall di Nairobi, in cui un commando armato di jihadisti uccise più di 60 persone e impegno le forze di sicurezza keniote per oltre 30 ore (cfr intervista a ABCNEWS, disponibile qui).

Sul paradigma operativo delle Forze di Sicurezza, è stato dimostrato dai fatti che è inutile ogni trattativa, ogni negoziato, che fornisce solo tempo supplementare ai jihadisti per proseguire il loro disegno di sterminio. Nessuna mente sana avrebbe intavolato una trattativa con le SS, per liberare dai treni della morte gli ebrei mentre venivano condotti nei campi di concentramento.

Il racconto di una delle persone prese in ostaggio al ‘Corriere della Sera‘ (qui), identificata con il solo nome di Janine, 86 anni, chiarisce che una difesa di punto minima avrebbe impedito ai due barbari di ottenere il risultato jihadista.

Ergo, l’attacco immediato delle forze speciali deve diventare la prassi ordinaria, cosa che presuppone un lavoro preventivo di conoscenza di tutte le strutture pubbliche e private esistenti sul territorio, le cui mappe devono essere disponibili in tempo reale alle Forze dell’Ordine e alle Forze Armate, senza barriere di accesso alcuno.

Solo con l’implementazione di queste misure complementari si potrà tentare di ridurre le perdite di un attacco jihadista, ossia un evento bellico in contesto urbano (repetita iuvant). Tutto il resto è pericoloso chiacchiericcio.

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