Da Gela a Butera, violenza carnale e ritorno

Una quattordicenne fa arrestare dopo due anni i propri aguzzini, minorenni all’epoca dei fatti. Gela città dove tutte le agenzie educative hanno fallito

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La notizia è di quelle che lasciano l’amaro in bocca e il sudore alle mani, ma ormai le violenze perpetrate verso le donne sono diventate una vergognosa routine, cui sbagliamo ad assuefarci. Dobbiamo reagire come fratelli, genitori, amici, cittadini.

A Butera nel 2011 la serata di una ragazza quattordicenne, forse “colpevole2 di essere troppo bella per non “approfittarne”, fu sottoposta a ogni tipo di violenza fisica, prima di subire un’aggressione sessuale da parte di due quasi coetanei, R.D. e C.R.B. le iniziali, all’epoca dei fatti di 16 e 17 anni.

Poi, “finita la consumazione”, peggio che con un rifiuto da catena di fast food, lasciarono la povera ragazza a terra, nuda, dolorante, per tornarsene a Gela in motorino.

La Polizia, dopo due anni di indagini iniziate dopo la coraggiosa denunzia della ragazza, tre mesi dopo i fatti, ha scoperto i colpevoli, riconosciuti dalla vittima e inchiodati alle loro responsabilità dall’emissione di un mandato di cattura emesso dal GIP presso il Tribunale dei Minorenni di Caltanissetta, Francesco Pallini, su richiesta del sostituto procuratore, Simona Filoni.

L’ennesimo episodio di violenza che vede protagonisti due ragazzi di Gela, una città dove tutte le agenzie educative hanno fallito in prospettiva civica, dove l’inciviltà è diventata normale e dove non si può riprendere o rimproverare un ragazzo, senza rischiare di far andare in fumo la propria autovettura o la propria casa. Il bollettino notturno dei roghi dice che non è criminalità organizzata, ma maleducazione disorganizzata dietro a questi veri e propri atti di guerriglia civile.

Gela è una città malata di una malattia diagnosticata nel 1969 dal sociologo Evydin Hytten, in uno studio commissionato dall’Eni e poi insabbiato nelle secche del silenzio: città cresciuta ma non sviluppatasi sotto il profilo sociale e culturale. A dispetto dei mille fermenti e delle associazioni sul territorio, anche se spesso legate all’attività di questo o quel politico (o, per meglio dire, politicante). A farne le spese, le fasce più disagiate della comunità, che avrebbero bisogno esempi che non hanno.

Il professionista che dal pescivendolo passa la coda per essere servito prima (episodio cui abbiamo assistito personalmente, ma non è una maniglia per aprire porte di polemiche). La giovane e carina professoressa, ben vestita, che salta a piè pari la fila alla cassa e si inserisce come un furetto. Gli occhi straboccanti di meraviglia di fronte a chi dice a una cassiera “scusi, forse ho dimenticato di pagare questo prodotto”. Il medico che ti lascia sei giorni con fratture esposte, poi arriva ed esclama meravigliato “ma a questo quanta anestesia dobbiamo fare, visto che è un toro?”, un modo di esprimersi che neanche un veterinario verso il più malato dei cani.

Segni inequivocabili del fallimento pedagogico di una città, in cui la politica è spesso esempio di cosa non fare, oltre alla violenza manifesta dell’inconcludenza e della pessima amministrazione. Se ci fosse un premio “faccia di bronzo”, i sindaci e i consiglieri comunali della città degli ultimi trenta anni lo meriterebbero tutti ex-aequo. Una città che, invece, avrebbe le risorse storiche, naturali e professionali per risalire dal pozzo senza fondo degli orrori in cui i gelesi stessi l’hanno cacciata. Fino alle gite fuori porta, con violenza carnale finale, aiutate dal silenzio di chi vede e sente, ma fa finta di non vedere e non sentire. Per “farsi gli affari propri“, un altro modo per dichiarare la propria inciviltà!

Non è solo violenza contro le donne, è violenza endemica, verso cui la sola repressione non basta, come non basta la retorica buonista o le azioni sociali sponsorizzate per promuovere il silenzio verso altre vergogne. Bastone, carota e buoni esempi, altrimenti Gela – sesta città della Sicilia – morirà suicidandosi.

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