Dalle parole ai fatti. Federico, deputato all’Assemblea Regionale Siciliana, aggredito a Gela da un disoccupato

A furia di soffiare sul fuoco, prima o poi qualche scintilla lo attizza. La situazione generale è colpa di tutti: di chi ha promesso sapendo di non poter mantenere e di chi ha cercato scorciatoie senza pensare al proprio futuro con responsabilità

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Giuseppe Federico, per tutti “Pino”, al secondo mandato di deputato siciliano all’Assemblea Regionale e aderente al Partito dei Siciliani di Gianfranco Miccichè, già presidente della provincia di Caltanissetta, ieri sera è stato aggredito da un trentacinquenne disoccupato, padre di tre figli, del quale non sono ancora state divulgate le generalità.

L’aggressione è avvenuta nell’ambulatorio dentistico del deputato, nel quartiere Caposoprano, vicino a due istituti di credito. È probabile che le telecamere di sorveglianza di queste due agenzie abbiano filmato la fuga dell’aggressore, che ha provocato ferite al volto di Federico, il quale ha dovuto fare ricorso alle cure del pronto soccorso dell’azienda ospedaliera “Vittorio Emanuele II” della città del golfo. I sanitari del nosocomio gelese hanno applicato tre punti di sutura, per arrestare il flusso di sangue sgorgante dalle vie nasali. Non si conosce ancora la prognosi. Federico in tarda serata è tornato a casa dall’ospedale, dove lo avevano raggiunto diversi esponenti politici e amici, tra i quali Ugo Costa, assessore alla polizia municipale in carica.

L’individuo che ha aggredito il deputato siciliano avrebbe atteso il turno in ambulatorio e poi, dopo un’accesa discussione, avrebbe sferrato una testata al viso del deputato. Alla base del gesto ci sarebbe la disperata situazione economica dell’aggressore, il quale avrebbe ricevuto promesse di lavoro in campagna elettorale, poi non mantenute. Federico avrebbe dichiarato di non aver alcuna intenzione di denunziare il proprio aggressore, che sarebbe un ex sostenitore politico. Sull’episodio indagano polizia e carabinieri di Gela, subito informati dell’accaduto.

L’episodio dimostra che la campagna di violenza verbale in corso in Italia, da parte di sedicenti movimenti rivoluzionari e innovatori, sta cogliendo i primi amari frutti. Ma questa campagna neo-puritana non tiene conto che in larghe parti d’Italia – come il Meridione – la situazione economica e sociale esplosiva è frutto di un coacervo di compartecipazioni e di responsabilità. Quelle di una classe dirigente in genere impreparata e inadatta alla sfida di innovare il Paese; quella di sindacati attenti ai posti di lavoro esistenti – pardon, agli stipendi – senza avere a cuore davvero il mondo del precariato. Quelle, infine, della cosiddetta società civile, che spesso ha cercato la scorciatoia della raccomandazione politica e l’agganciamento alle cordate clientelari per migliorare il proprio futuro, abdicando alla funzione propria del popolo, quella di sorvegliare il “potere” o a prepararsi meglio per affrontare le sfide del mercato nazionale e internazionale del lavoro. Si potrebbero perfino fare esempi di “figli-di”, cooptati in prestigiose sedi comunitarie, per “meriti politici” (malgrado il possesso di requisiti professionali di pregio: segno ulteriore del degrado clientelare…), ma non è questo il punto.

Non sarà il ricorso alla violenza a risolvere i problemi, alcuni di estrema delicatezza perché implicano il perverso rapporto tra criminalità organizzata e potere politico; piuttosto un’assunzione generale di responsabilità e gli sforzi di tutti i cittadini nel trovare nuove vie per dare nuova linfa al Paese.

Un dato è certo: la politica degli ultimi trentanni ha fallito la missione e, con le buone, dovrebbe farsi da parte, perché il pericolo è che gesti come quelli di ieri sera possano moltiplicarsi in modo esponenziale, vanificando ogni sforzo e facendo scivolare l’Italia in una pagina buia di violenza inutile, di cui gli italiani non hanno bisogno.

Ultimo aggiornamento 11 Maggio 2013, ore 11.55

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