Con Ventotto ce n’è uno, ma di Ventotene non si ricorda nessuno

L’ingresso della Croazia nell’Unione Europea sarebbe un’ottima evoluzione verso un Continente unito da un’organizzazione federale delle istituzioni, ma al contrario siamo ancora ostaggi della logica funzionalista che blocca in modo antidemocratico la più popolata area democratica del pianeta

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Dalla mezzanotte del 1° Luglio 2013, ci siamo allargati. La Croazia è diventata il ventottesimo Stato membro dell’Unione Europea. Come di consueto, l’occasione è utilizzata come palcoscenico della retorica, attraverso una lunga sequela di celebrazioni alla presenza di decine di capi di Stato, premier e ministri. Piazza Bano Jelacic di Zagabria, la più grande del Paese, sarà il centro di queste manifestazioni, cui presenzieranno per l’Italia il presidente della repubblica Giorgio Napolitano e il ministro degli esteri Emma Bonino. Celebrazioni sono previste ai confini con l’Ungheria e la Slovenia, dove verranno aboliti i punti di controllo doganale, anche se i controlli frontalieri resteranno effettivi per almeno altri due o tre anni, in vista dell’adesione del Paese ex jugoslavo alla zona Schengen.

Sotto il profilo tecnico, la circolazione delle persone diventerà più semplice e veloce, perché ai valichi saranno istituiti controlli congiunti e ai cittadini croati, divenuti cittadini dell’UE, sarà sufficiente esibire la carta di identità per accedere agli altri Paesi dell’Unione. Ai confini “esterni” (per adesso) con Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro – che fino al 1990 con la Croazia costituivano la Jugoslavia – saranno collocate le insegne dell’Unione europea e i controlli delle merci e delle persone saranno adeguati alle normative di Bruxelles. Con l’ingresso nell’Unione, Zagabria esce dal Cefta (Central European Free Trade Agreement, ndr), la zona di libero commercio di cui fanno ancora parte gli Stati balcanici non appartenenti all’UE.

Parte della Croazia ritorna dunque accessibile in modo libero agli italiani, soprattutto a quelli che ne furono cacciati (quando fortunati) alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Altri persero tutto, anzitutto la vita, travolti dall’orrore comunista titino e dai connazionali fiancheggiatori, che in mente avevano l’Internazionale, piuttosto che il senso di appartenenza alla Nazione italiana, in senso culturale, non certo in senso etnico e politico.

«Un evento storicamente e giuridicamente positivo, perché cancella l’ultima frontiera che separava dall’Europa le loro terre natali e che all’Europa occidentale sono sempre appartenute culturalmente fin dalle epoche più antiche» è stato il commento dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, che rappresenta gli Esuli da Istria, Fiume e Dalmazia. «Si chiude così definitivamente un ciclo nefasto di odi e di inimicizie, che per il popolo istriano, fiumano e dalmata ha trovato il culmine nei massacri delle Foibe, nell’oppressione del regime di Tito, nell’esodo di 350.000 italiani, svuotando del 90 per cento una regione pacificamente abitata da millenni dalla sua popolazione autoctona» afferma la nota, che ricorda come la «caduta di quest’ultima frontiera riporta nel grembo delle Nazioni europee anche le terre ex-italiane ed ex-veneziane, che il trattato di pace del 1947 aveva tolto alla Madrepatria».

Ma non tutti i problemi degli esuli sono stati risolti, tanto da essere ancora oggetto di trattative bilaterali. E l’Italia ha sbagliato a togliere il veto alla piena adesione della Croazia, fino a che queste trattative non fossero state concluse in modo proficuo.

C’è però un ragionamento più ampio che si può fare in questa occasione, valido tanto più nel tempo corrente, in cui le spinte anti-europeiste si moltiplicano dal nord al sud dell’Europa. Queste spinte sono frutto dell’ignoranza in cui sono state tenute sul processo di integrazione europea intere generazioni fino al 1990, perché nella scuola dell’obbligo la storia e la geografia non hanno dato agli studenti di quegli anni sufficiente conoscenza del processo europeista, dei motivi che spinsero i Padri Fondatori all’unione funzionale su alcune materie, ma con in mente bene altro.

Per fare una battuta – amara, amarissima per un europeista convinto come chi scrive – con Ventotto Stati ce n’è uno, ma di Ventotene non si ricorda nessuno. Nell’isola di Ventotene infatti furono gettati i semi per la rinascita dell’idea di Europa unita, con un progetto che ne impedisse per sempre la guerra e che stringesse gli Stati europei attorno ai valori culturali comuni, in una condivisione solidale dei destini.

Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel documento “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”, passato poi alla storia come “Manifesto di Ventotene” gettarono le basi ideali per erigere istituzioni comuni, sulla base dell’abiura del comunismo e dello studio dei Federalist Papers nordamericani. Le idee federaliste furono divulgate in clandestinità da Eugenio Colorni.

Nel dopoguerra, il processo d’integrazione europea fu avvitato “Dichiarazione Schuman” del 9 Maggio 1950, quando il ministro degli Esteri francese Robert Schuman prospettò la nascita di organismi comuni tra diversi Stati europei – attorno al nucleo centrale franco-tedesco – per la gestione dei problemi relativi all’acciaio e all’energia: nasceva la CECA e prendeva avvio la “fase funzionalista” del processo integrativo. L’Italia ne fu membro fondatore.

Alla base del funzionalismo c’era l’idea che il successo della cooperazione su un settore particolare avrebbe spinto all’allargamento della cooperazione – e della gestione comune – anche su altri temi. Almeno fino a quando la profondità della cooperazione (in senso verticale) e l’allargamento dell’ambito nazionale (in senso orizzontale e per l’ingresso di più Stati nelle istituzioni comuni) non avesse portato a ritenere esaurita la “fase funzionalista”, con la conseguenza di attivare quello che noi chiamiamo un “cortocircuito creativo costituzionale”. Ossia l’avvio della “fase federale”.

Questa trasformazione era già nei progetti dei Padri Fondatori del processo, ma non è mai stata avviata davvero a causa della scarsa qualità delle classi dirigenti degli Stati dell’Unione, che spesso hanno considerato le istituzioni comuni come fonti di finanziamento o come refugium peccatorum di politici trombati alle elezioni nazionali. Non è un problema solo italiano, ma l’Italia ha grandi responsabilità nell’inceppamento di questo processo costituzionale, perché ha inviato a Bruxelles troppo spesso personaggi di infima qualità ideale e senza alcun retroterra conoscitivo serio sulle istituzioni europee.

La crisi che oggi investe l’Europa e le istituzioni comuni non è crisi di idee, ma la crisi finale del “funzionalismo”. Che serve all’Europa e agli europei, per diventare “popolo unito”?

A nostro avviso, servirebbe anzitutto abbandonare la diplomazia per avviare una vera democrazia, non un’area democratica ostaggio della burocrazia di Bruxelles e di Strasburgo (e di quelle statali).

Servirebbe un presidente dell’Europa eletto direttamente dal popolo, per un tempo limitato e con limiti alla rielezione, che fosse anche capo del governo.

Servirebbe un vero Parlamento bicamerale, con le distinzioni di competenze esistenti nelle due Camere del Congresso statunitense: l’attuale Consiglio Europeo dovrebbe essere trasformato in Senato degli Stati, con un numero fisso di “Senatori” per ciascuno Stato, simbolo della parità di dignità degli Stati aderenti all’Unione; l’attuale Parlamento Europeo dovrebbe diventare la Camera dei Rappresentanti del popolo (eletta su base proporzionale alla popolazione di ciascuno Stato).

Servirebbero Forze Armate Europee, costituite attraverso il trasferimento delle migliori unità operative di cielo, di terra e di mare degli Stati membri del processo europeo.

Servirebbe che gli Stati mantenessero un’aliquota di forze militari, sotto forma di Guardie Nazionali statali, sul modello delle analoghe “GN” degli Stati Uniti d’America.

Servirebbe un Corpo giudiziario europeo indipendente e competente in modo esclusivo su norme civili e penali comuni, lasciando agli Stati le competenze sulle materie più vicine alle realtà statali, secondo il principio di sussidiarietà.

Servirebbe una vera Polizia Europea, che rispondesse sotto il profilo politico al governo europeo, non come l’attuale Europol, un grosso centro di analisi e raccolta di dati (anche sensibili), che però non risponde a un potere politico legittimo.

In ultima analisi (come usa dire la “meglio intelligenza de sinistra”), servirebbe all’Europa uno Stato federale, che però non si può costituire senza la partecipazione dei cittadini, che ne ratifichino la nascita con il loro voto deliberante. In Italia espliciti divieti costituzionali (articolo 75, secondo comma della Costituzione) impediscono la partecipazione del popolo al processo di integrazione europea e impedirebbero – allo stato attuale – anche la partecipazione al processo di ratifica dell’adesione del Paese a un eventuale Stato Federale Europeo.

Un vulnus antidemocratico e intollerabile, che fa dell’Italia un Paese medievale, in cui i temi non vengono spiegati a sufficienza ai cittadini, che diffidano di tutti gli appartenenti alla cosiddetta classe dirigente.

L’ingresso della Croazia sarebbe un motivo per festeggiare se il processo per rendere l’Europa uno Stato Federale fosse stato già avviato, perché renderebbe la federazione più forte e ampia. Poche voci in questi anni hanno chiarito che in una federazione nessuno Stato membro può – e perfino deve – atteggiarsi in termini egemonici verso gli altri Stati: al contrario di quel che avviene oggi tra la Germania di Angela Merkel & Compagni e gli altri Stati dell’UE.

Per questo motivo noi non pensiamo si debba festeggiare l’allargamento della più antidemocratica istituzione dell’area democratica più ampia del pianeta, una contraddizione in termini che si attorciglia ogni giorno di più.

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