La strage quotidiana

Le donne bersaglio di una violenza cieca quanto frutto di debolezza, anzitutto etica. Eppur si svuotano le carceri, con effetti diabolici…

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Ieri a Palermo, Rosy, l’ennesima vittima di una mattanza indecente che ci accomuna con i Paesi più incivili del Pianeta. L’ennesimo atto di una tournée di tragedie consumate nella riservatezza delle abitazioni, come per strada. Una vergogna talmente brutale da aver indotto la coniazione di un orribile eufemismo – femminicidio – come se si potesse distinguere l’assassinio di una persona per il genere dell’assassinato.

Certo, una provocazione, una sottolineatura che dovrebbe accendere le luci sulle infinite tragedie quotidiane, amplificate forse (senza che possa sembrare in qualche modo una giustificazione) dalla crisi, dalla perdita del senso del ruolo di marito, padre, compagno, sostegno. In realtà è violenza tra generi tout court, disabitudine al confronto, mancanza di fondamentali del convivere civile.

Certo la bellicosità dei rapporti interpersonali qualche collegamento deve averlo con un fenomeno che non è più “emergenza2, ma inqualificabile realtà giornaliera, bollettino di guerra etico di un Paese in crisi con se stesso e con l’altra metà del Cielo.

Qualcuno ha sulla coscienza la morte di mia figlia” ha detto la mamma di Rosy Bonanno, perseguitata per due anni da un energumeno senza armi etiche e quindi “costretto” a usare le armi della violenza per manifestare le proprie ragioni, senza percepire in alcun modo quelle della ex compagna. Il senso patrimoniale del possesso, in tempi in cui i patrimoni declinano e chi ha poco si scopre con meno di niente. Paradossi del tempo corrente, con troppi distratti.

Come potrei spiegare a mia figlia la velocità di processare un personaggio politico da non votare – ma da mettere in galera? – con la straordinaria distrazione dell’ordinamento verso le denunzie di una donna che ha percepito in anticipo il senso tragico del proprio tempo che si restringe, compresso dalle violenze, dalle promesse di violenze, dalle minacce di un uomo incurante di lasciare un bimbo di due anni solo al mondo, senza genitori e senza amore?

Come si può giustificare una burocrazia elefantiaca, che dovrebbe servire il cittadino come nel migliore albergo sette stelle del Golfo Persico e invece lo serve con la lentezza sporca ed esasperante delle stamberghe del bel tempo che fu nell’Europa dell’Est comunista?

Come spiegare a quel bimbo vigile del corpo della madre la violenza multipla di un individuo reso cieco dall’ignoranza, che lo ha lasciato accanto alla madre, uccisa insieme all’amore che non potrà mai darli?

Ha ragione la mamma di Rosy, qualcuno ha sulla coscienza la morte della figlia. Ce l’ha sulla coscienza chi – avendone il dovere giuridico – non ha fatto il possibile e l’impossibile per evitare il delitto. Ce l’ha sulla coscienza chi, tra i parenti dell’assassino, non ha speso una parola per moderarne il comportamento, per farne sbollire ogni rabbia, per farlo ragionare. Ce l’ha chi tramanda ogni giorno violenza su violenza, male-educando i figli che si ritroveranno loro malgrado intrisi di una cultura barbara e incivile, in cui la violenza è esercitata con colpevole nonchalance.

Un po’ è colpa di tutti noi, inani di fronte alle ripetute liti di cui siamo testimoni nel vicinato. Un po’ è colpa di tutti noi quando, facendoci prendere la mano, alziamo la voce con il nostro coniuge, il nostro partner, il nostro collega, convinti che un volume più alto serva a tramandare un messaggio. Un po’ è colpa di tutti noi, alla ricerca di una esclusività di diritti, incuranti del fatto che una comunicazione efficace tra le cellule serva a disinnescare una malattia neoplastica, così come una comunicazione adeguata serva a prendere atto perfino di un amore che svanisce.

Più che carceri – che ci vorrebbero comunque – sarebbero necessari educatori, in uno Stato che soffoca il cittadino perbene con una fiscalità da furto con destrezza. Sarebbe il minimo.  

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