Cina, Xi Jinping chiede aiuto alle religioni per la lotta alla corruzione

di Padre Bernardo Cervellera**

Lo sfrenato sviluppo economico, il materialismo ha azzerato i criteri morali della società cinese, soprattutto nel Partito comunista. Il presidente e segretario generale pensa di dare più libertà a buddismo, taoismo e confucianesimo per ridare moralità alla stanca società cinese. Ma il prof. Liu Peng pensa sia bene varare una vera e propria legge per la libertà di tutte le religioni, anche quella cristiana e islamica

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Roma – In uno dei miei primi viaggi in Cina, oltre 20 anni fa, una vecchietta che faceva le pulizie in una chiesa del Guangdong, rivendicava maggiore libertà religiosa. “Perché il governo non dà più libertà alla nostra fede? In fondo cosa consiglia la fede cristiana? Onora il padre e la madre, non uccidere,  non rubare… E queste non sono cose buone anche per la società?”.

La povera vecchia era addolorata perché diversi vescovi non ufficiali erano stati arrestati, ma anche perché la corruzione dei membri del Partito e dell’Associazione patriottica erano sempre più evidenti. E aveva sottolineato il comandamento di “non rubare” proprio davanti a un membro governativo, famoso per ricevere bustarelle.

A diversi decenni da quell’episodio, la corruzione nel Partito e nel governo è divenuta una vera e propria malattia. Secondo la Corte suprema, che ogni anno dà relazione del suo operato, dal 2008 al 2012 almeno 143mila rappresentanti del governo sono stati condannati per corruzione, con una media di 78 al giorno!

La corruzione è un cancro tale che ogni presidente e segretario del Partito chiede la conversione all’onestà, avvertendo che se non si cambia, si rischia di far crollare il Partito stesso. Lo stesso Xi Jinping, lo scorso novembre, divenendo segretario generale, ha gridato che “la peggiore corruzione produrrà come unico risultato la fine del Partito e dello Stato! Dobbiamo essere vigilanti!”.

Al presente Xi ha lanciato un’ennesima campagna a “tolleranza zero” contro i membri del Partito che si distaccano “dalle masse”  e scivolano nell’illegalità (insieme a lussuria e consumismo) riproponendo perfino le sessioni di autocritica come ai tempi di Mao.

Il processo a Bo Xilai, ex segretario del Partito a Chongqing, o quelli in preparazione contro Zhou Yongkang, ex ministro della sicurezza, e Jiang Jiemin, ex presidente della China National Petroleum Corporation, sembrano voler essere esemplari: non sfuggirà nessuno, né i grandi, né i piccoli; né “le tigri”, né “i moscerini”.

Ultimamente, secondo la Reuters, per far guarire la Cina dalla corruzione, Xi Jinping sembra voler chiedere aiuto alle religioni. Convinto che l’immoralità si è diffusa a causa di uno sviluppo materiale troppo frettoloso e senza riferimenti spirituali, egli ha confidato che occorre essere “più tolleranti” verso le religioni tradizionali. In tal modo egli spera che “le tradizioni culturali della Cina – confucianesimo, buddismo, taoismo – aiuteranno a riempire il vuoto che ha permesso alla corruzione di emergere”.

Per ora si tratta di voci e di considerazioni e non si comprende cosa significhi “più tolleranza”.  Tutte le religioni ufficiali (buddismo, taoismo, islam, protestanti, cattolici) sono sottoposte a controlli statali sui luoghi di raduno, sul personale designato, sulle attività dei fedeli. Una maggiore tolleranza forse potrà alleggerire il controllo, o permetterà più libertà in cambio di una caccia (spirituale?) alla corruzione.

Alla considerazione di Xi Jinping vi sono però due obiezioni. La prima è che già da molto tempo il Partito ha sovvenzionato in modo considerevole le attività di confuciani e buddisti, ma non si è visto alcun miglioramento sul versante della corruzione.

Nel 2002 Pechino ha stanziato ben 10 miliardi di dollari Usa per finanziare il revival dell’antico saggio cinese. Ma non sembra vi siano stati buoni effetti, se non quello di diffondere di più nel mondo la lingua e la cultura della Cina. Lo stesso si può dire con il grande sostegno dato al buddismo (escluso quello tibetano).

In più, vi è il sospetto che queste religioni “tradizionali” siano coccolate soprattutto perché istillano nei fedeli una obbedienza totale all’autorità e al Partito, o proiettano i loro seguaci verso una felicità oltre la storia.  L’attivista Hu Jia, anch’egli buddista, ha dichiarato a questo proposito: “I buddisti accettano il loro destino e per la loro situazione danno la colpa alle loro azioni malvagie compiute nella vita precedente”. In questo modo non c’è bisogno di accusare il Partito per le ingiustizie, gli arresti, l’inquinamento, i sequestri di case o terreni, lo squilibrio fra ricchi e poveri.

Anche secondo il governo, il buddismo è da preferire su cristianesimo e islam perché “guarisce meglio le divisioni sociali”.

La seconda obiezione è che privilegiando le “religioni tradizionali” si compie una discriminazione sui fedeli: non si capisce perché il buddismo, penetrato in Cina dall’India solo qualche secolo prima di cristianesimo e islam, dovrebbe essere considerato “più tradizionale” di questi ultimi.

Ad ogni modo, è da apprezzare il legame che il capo del Partito pone fra moralità e religione, fra vuoto spirituale e corruzione, fra mancanza di fede e disgregazione sociale.

Lo scorso anno AsiaNews ha pubblicato una serie di articoli del prof. Liu Peng, dell’Accademia delle scienze di Pechino proprio sulla crisi del marxismo in Cina e sulla necessità di ridare un ideale ai cinesi attraverso le fedi religiose (cfr.: 25/07/2012  Il tallone d’Achille della potenza cinese: la religione; 31/07/2012 Liu Peng: I cinesi hanno “perso la fede” negli ideali proposti dal Partito; 06/09/2012  Dopo le “religioni fallite” di Mao e di Deng, la Cina cerca Dio; 19/09/2012  Per salvarsi, il Partito comunista cinese deve garantire la libertà religiosa).

L’idea di Liu Peng è che lo Stato non deve controllare le religioni, ma lasciare che esse penetrino nella società cinese per ridare consistenza, moralità, coesione, ideali dentro e oltre la storia.

Perché ciò avvenga è necessario che la Cina si doti di una legge sulle religioni. Dai tempi di Mao ad oggi le fedi in Cina sono sottoposte solo a regolamenti che vengono tradotti, applicati, cambiati, manipolati secondo l’uso e l’abuso dei capi. Non vi è invece una legge che protegga le religioni (o le proibisca). Il prof. Liu Peng, che è presidente del Pushi Institute for Social Sciences di Pechino, in un seminario tenutosi lo scorso giugno ha ribadito la sua tesi secondo cui la Cina ha bisogno di dotarsi di una legge sulle religioni (non di un regolamento). Secondo l’accademico, questo permetterebbe di risolvere i problemi che lo Stato ha con le religioni attraverso la legge e consentirebbe allo Stato di approfittare dell’influenza benevola delle religioni sulla società.

Ciò porterebbe benefici non solo a livello di corruzione, ma anche di armonia sociale e di slanci ideali. Forse per Xi Jinping è tempo di ascoltare il monito della vecchietta del Guangdong.

(AsiaNews)

**direttore di Asia News