Alzheimer, test del sangue scopre rischio di sviluppare la malattia in 3 anni

L’esame, preciso al 90%, è in grado di identificare 10 lipidi che possono predire il morbo nel momento in cui la terapia potrebbe essere più efficace nel rallentare o prevenire l’insorgenza dei sintomi

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Dal Georgetown University Medical Center nuove speranze di prevenzione e cura del morbo di Alzheimer. In uno studio pubblicato su “Nature Medicine” da un gruppo di ricercatori dell’università di Washington, supportati dal finanziamento pubblico del National Institute of Health e del Department of Defence, si evidenzia come una semplice analisi del sangue potrà identificare in una persona sana il rischio di sviluppare una malattia del sistema nervoso, sia in forma lieve che nelle forme del il morbo di Alzheimer.

L’analisi avrà un’altra precisione nell’individuare i marcatori e la possibilità di anticipare con molto anticipo – fino a tre anni – il manifestarsi della malattia. Si tratta di una vera e propria rivoluzione nello sviluppo delle strategie di contrasto dell’Alzheimer in fase precoce, ossia in un momento in cui opportune terapie potrebbero risultare efficaci nel rallentamento, se non proprio nella prevenzione e blocco, dell’insorgenza dei sintomi.

Al centro del lavoro di ricerca della Georgetown University di Washington, un gruppo di 525 soggetti sani ‘over 70’, attraverso l’identificazione di 10 lipidi (grassi) presenti nel sangue in grado di predire l’insorgenza della malattia.

Secondo i ricercatori americani, coordinati dal professor Howard J. Federoff, il test messo a punto nella ricerca potrebbe essere pronto in soli due anni per la fase di applicazione concreta, per una prima fase di conferma dei presupposti teorici, per entrare poi nell’uso diagnostico ordinario.

Il nostro test offre la possibilità di identificare le persone a rischio di declino cognitivo progressivo e può cambiare la vita ai pazienti, le loro famiglie e ai medici che li hanno in cura“, ha affermato Federoff, docente di neurologia del Georgetown University Medical Center.

Il gruppo di scienziati coinvolto nella ricerca è corposo, come riporta “Nature Medicine“, e include Amrita K. Cheema, Massimo S. Fiandaca, Xiaogang Zhong, Timothy R. Mhyre, Linda H. MacArthur e Ming T. Tan di Georgetown, Marco Mapstone, William J. Hall e Derick R. Peterson della University of Rochester School of Medicine, ma anche Susan G. Fisher della Temple University School of Medicine, James M. Haley e Michael D. Nazar del General Health System di Rochester, Steven A. Ricco del Rochester General Hospital, Dan J. Berlau, del Regis University School of Pharmacy di Denver, e Carrie B. Peltz e Claudia H. Kawas della University of California di Irvine.

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