Whiplash, il sottile inganno con merletti di Damien Chazelle

L’opera seconda con cui il giovane regista americano ha trionfato al Sundance Film Festival si rivela purtroppo uno specchio per le allodole

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Un ragazzo all’interno di una stanza. Sta suonando la batteria, fa pratica, migliora. La macchina da presa indugia lentamente, poi si addentra tra le componenti dello strumento musicale, esaltando la fatica dell’aspirante musicista, il suo sudore, la fatica dell’allenamento. Irrompe il gran maestro, con aria superba e meschina, lo deride per qualche secondo, se ne va com’era entrato.

Ecco, immaginatevi ora questa scena ripetuta per cento estenuanti minuti e condita da qualche morale di second’ordine, atteggiamenti da superuomo e imprecazioni, urla in stile Sergente Maggiore Hartman.

Whiplash, di Damien Chazelle, non decodifica nulla ma applica semplicemente, e in maniera piuttosto stancante, tutti gli stilemi del più canonico film sportivo (derivato da “Rocky”) a un racconto che vorrebbe disperatamente parlare di musica. Ovvio dire che non ci riesce quasi mai, e che i virtuosismi della macchina da presa, ripetitivi e ossessivi, non rispecchiano tanto l’ossessione del protagonista (che disperatamente cerca di arrivare a migliorarsi sempre di più), quanto l’intenzione del regista di coprire certe ingenuità e incomprensioni a livello di scrittura. Non stupisce dunque che lo spunto nasca da un cortometraggio e, come accaduto per La madre, viene diluito fino all’inverosimile, al punto da perdere di vista la sostanza.

Chazelle, che pure non è nuovo ai film a tema musicale, ripete lo stesso errore già commesso ne “Il ricatto”. Infatti, in quel film il regista Eugenio Mira cercava di compensare una scrittura piuttosto debole con una tecnica di ripresa che catalizzava tutta l’attenzione e faceva passare in secondo piano il resto. Whiplash è in definitiva la descrizione di un rapporto di rispetto/odio tra maestro e allievo che ricalca spudoratamente la chimica kubrickiana di Full Metal Jacket (con un J.K. Simmons che si prenderà l’Oscar tra meno di due settimane), ma che purtroppo a livello di sceneggiatura lascia più di qualche semplice imbarazzo. La storia prosegue per inerzia, nella parte centrale vira bruscamente, per poi ritornare sui propri rassicuranti binari senza un motivo apparente o plausibile, rendendo il genere musicale su cui è sviluppata, il jazz, un mero accessorio e niente più.

Data la struttura anoressica della trama, si sarebbe potuto puntare sull’introspezione dei personaggi, che purtroppo appaiono monolitici, bidimensionali, guidati da un unico ripetitivo mantra.

Insomma, ancora una volta ci ritroviamo di fronte al solito prodotto di discreta fattura (tutta la critica sta esultando all’unisono) che riesce astutamente a ingannare il suo pubblico (Sundance) e convince anche quello generalista (Academy); complice anche l’utilizzo di un montaggio ruffiano a dir poco, andrebbe premiato solo per la coerenza nei confronti della storia che racconta: quella di due personaggi talentuosi, ma che nel profondo sanno di essere in tutto e per tutto dei mediocri.  

Il film ha ricevuto 5 nomination all’edizione 2015 dei premi Oscar (tra cui Miglior film, montaggio e miglior attore non protagonista) e arriverà nelle nostre sale domani, 12 febbraio. 

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