Foxcatcher, Bennett Miller continua a raccontare l’incubo americano

Il terzo film del regista è un’opera rigorosa sia nella forma che nel contenuto, impreziosito dalle splendidi performance dei suoi attori

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Dopo la vittoria dell’Oro alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, il lottatore Mark Schultz viene contattato dal miliardario filantropo John E. du Pont che lo vuole allenare nella sua tenuta presso il suo nascente team “Foxcatcher”. Mark vede in questa svolta l’opportunità di affrancarsi definitivamente dal fratello maggiore David, anch’egli lottatore e Oro Olimpico. Il rapporto che s’instaurerà, però, tra Mark e John sconfinerà in un territorio ambiguo e psicologicamente intollerabile.

Ci sono dei significativi echi di “The Master” nell’ultima fatica di Bennett Miller. Se nel film di Paul Thomas Anderson si respiravano atmosfere sognanti e si agognavano promesse rivelatorie, in Foxcatcher, opera profonda ed estremamente intelligente, il sogno si è già tramutato in un angosciante incubo da cui è impossibile risvegliarsi senza cicatrici. Cicatrici che vanno a corrodere più la psicologia dell’essere umano, che il corpo scultoreo dei lottatori protagonisti del terzo film del regista, che continua così un discorso eterogeneo ma profondamente coerente nel suo raccontare l’altra faccia di un’America satura di illusioni catalizzatrici di violenza.

Tutta queste ambiguità, la rigidità dei corpi e la violenza dei semplici sguardi (che si contrappongono in modo complementare all’eccesso e alla spregiudicatezza della Wall Street di Scorsese, ambientata negli stessi – reaganiani – anni) trovano il loro emblema nella figura di John E. du Pont, uomo indecifrabile ma quantificabile grazie all’immensa mole di denaro ereditata.

È lui l’incubo da cui l’America si risveglia troppo tardi; osannato per falsi meriti prima, condannato (giustamente) come mostro malato poi, du Pont, così come i fratelli Schultz, è il risultato di una macchina produttiva asettica, meccanica, quindi non umana che risponde al nome di Stati Uniti d’America. Una macchina svuotata di ogni possibile etica o morale (come già accaduto in precedenza al Truman Capote di Philip Seymour Hoffman, in perenne lotta tra umanità e meschinità professionale – o allo spettatore di un gioco, quello del baseball, ormai privo della magia sognante dei giorni di gloria).

Miller, con questo suo terzo film, sforna il suo lavoro migliore. Con campi lunghi e movimenti di macchina ridotti all’osso restituisce lo stesso clima rigido e asettico in cui si muovono i suoi protagonisti; la fotografia grigissima (sembra quasi decolorata) di Greig Fraser scava fin dentro le ossa dei personaggi e li spoglia della loro umanità, di cui il solo David Schultz sembra essere portatore.

A Mark Ruffalo, infatti, va riconosciuto il merito di un lavoro rigorosissimo e allo stesso tempo profondamente umano: dalla postura semi curva, agli abbracci al fratello più piccolo (ma ben più grande nel fisico). Dall’altro lato del ring combattono la fisicità da cui Channing Tatum riesce a ricostruire un personaggio credibilissimo e l’abbattuto Steve Carell, un Norman Bates dell’epoca contemporanea e, proprio per questo, meno riconoscibile.     

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