‘Chi è senza colpa’, perché il cinema di genere ha bisogno di Dennis Lehane

Diretto da Michaël R. Roskam, si tratta della quarta trasposizione cinematografica di un lavoro dello scrittore di Boston

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Dennis Lehane è un maestro della narrativa criminale. Lo ha già dimostrato con il folgorante Mystic River, che Clint Eastwood ha tradotto nell’omonimo lungometraggio, con Gone Baby Gone, scelto da Ben Affleck come suo esordio alla regia, e con il ben più allegorico Shutter Island, portato sul grande schermo dalla coppia Martin Scorsese/Leonardo DiCaprio.

A Lehane piacciono i volti innocenti, nonostante questi quasi mai lo siano fino in fondo, e a Brooklyn (molto simile nelle atmosfere alla sua amata/odiata Boston) di volti del genere se ne incontrano molto frequentemente. In “Chi è senza colpa” (The Drop, nell’originale) la mano Michaël R. Roskam si sente e si percepisce in ogni inquadratura. Regista belga, già candidato all’Oscar con il suo film d’esordio (Bullhead), si lancia nel mercato cinematografico hollywoodiano senza però accusare il colpo di molti altri suoi colleghi. Il peso della produzione è qui attenuato da una regia iperrealistica e asciutta che utilizza gli occhi e gli sguardi di Tom Hardy e James Gandolfini (qui alla sua ultima interpretazione), più che la loro possente fisicità.

Con una forza virile costantemente suggerita e (quasi) mai apertamente sfoggiata, Chi è senza colpa è un film di sottintesi, di “voci di corridoio che circolano”, ovvero tutto quello tramite cui la criminalità organizzata prospera. Roskam non nasconde mai il suo amore per il genere puro, qui presente con tutti i suoi più classici e riconoscibili stilemi (rapina, racket, ricatti), e non mancano nemmeno le strizzate d’occhio a una certa atmosfera di scorsesiana memoria (come detto lo stesso genere descrittivo di Lehane si adatta molto alla cifra stilistica di Scorsese, dal classico Mean Streets al recente The Departed). Con un budget contenuto riesce a realizzare un prodotto che certo non introdurrà nulla di nuovo, ma questo non è affatto un male, consentendo anzi allo spettatore di assaporare un genere, di tornare a gustarlo, senza trovarci alcuna nota fuori posto (se si esclude, forse, un incipit iniziale usato come legenda e sostanzialmente inutile e forse imbeccato dalla produzione).

Roskam utilizza la staticità di Hardy come catalizzatore espressivo, come mezzo attorno a cui far leva, e gestisce montaggio e fotografia (ottimi) per donare ritmo quando la narrazione sembra attorcigliarsi.

Se Dennis Lehane fa questo effetto al cinema di genere hollywoodiano, e che qui si cimenta per la prima volta anche con la sceneggiatura, non ci resta che aspettare la sua prossima fatica sul grande schermo a braccia più che aperte.

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