Into the Woods, il musical di Broadway perde colpi sul grande schermo

Completamente privo di qualsiasi idea registica, il film di Rob Marshall finisce per annoiare a morte lo spettatore

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Erano anni che una casa di produzione cinematografica tentava di tradurre sul grande schermo il musical di Broadway Into the Woods, scritto da Stephen Sondheim, che ottenne un successo stratosferico nella seconda metà degli anni Ottanta. Ad insistere più volte fu la Columbia Pictures, che in un primo momento sembrava aver persino ingaggiato Robin Williams, le cui doti canore erano esplose grazie all’irresistibile interpretazione del Genio della lampada in Aladdin.

Tuttavia, solo nel 2012 il progetto passa alla Disney e il risultato è questo prodotto confezionato da Rob Marshall, specializzato nei musical cinematografici (i vari “Chicago” e “Nine”), e condito da un cast stellare di cui fanno parte Meryl Streep, Emily Blunt, Anna Kendrick, Chris Pine e Johnny Depp.

Il problema principale di Into the Woods (film) non sta tanto nelle musiche di Stephen Sondheim, che pure risentono di una certa derivazione (su tutte, quelle ben più originali e tetre di Sweeney Todd) e nemmeno della struttura della narrazione, che già di base procede per l’accumulo di numerosi intrecci. Il problema è Rob Marshall.

Trionfatore agli Oscar con uno dei film più sopravvalutati della storia (“Chicago”, in un’annata battuta per squallore solamente da quella che vide il successo di “Shakespeare in Love”), e con una carriera disseminata di opere soporifere, prive di una vera e riconoscibile cifra stilistica, Marshall anche in questo caso non fa nulla che gli possa concedere di apporre la sua firma a questa operazione. Dover lavorare con un prodotto così zuccheroso alla base, ma sottile e macabro nell’essenza, ciò di cui Into the Woods necessitava più di ogni altra cosa era una regia che donasse ritmo laddove lo spettatore riscontra solo un circolo vizioso di canzoni sparpagliate nel racconto senza nesso logico e che, cosa ben peggiore, diventano esse stesse racconto.

Non accadeva nella trasposizione di Sweeney Todd, dove il genio di Tim Burton aveva saputo cogliere le sfumature più interessanti del musical e le aveva stravolte e adattate alla sua poetica; il risultato in quel caso fu più che positivo, non solo per la regia ma per un uso delle canzoni a dir poco creativo, quasi fossero eterei monologhi interiori dei personaggi.

L’immaginario di Marshall, al contrario, lascia a desiderare: con una Meryl Streep ridotta a una sorta di incrocio tra Donna Sheridan di “Mamma Mia!” e Madeline Ashton de “La morte ti fa bella”; Daniel Huttlestone svuotato di tutta la potenza che invece preponderava in “Les Misérables” e un Johnny Depp perfettamente in linea con i suoi recenti standard, ma mal gestito e sfruttato solo per una manciata di minuti.

Insomma, se questa operazione può dirsi un successo sul piano economico (con 175 milioni incassati a fronte di un budget di 50), non si può certo affermare la medesima cosa sul piano artistico. È vero, però, che la casa di Topolino non di recente si è preoccupata più dei soldoni incassati che della sua antica magia, capace di far sognare decine di generazioni.

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