Opinioni | Problema: gli Stati nazionali europei esercitano un’effettiva sovranità nazionale?, di Vincenzo Scichilone 13.07.2012 | THE HORSEMOON POST -

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Opinioni | Problema: gli Stati nazionali europei esercitano un’effettiva sovranità nazionale?, di Vincenzo Scichilone 13.07.2012 | THE HORSEMOON POST

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La crisi istituzionale del processo di integrazione dell’Europa
Problema: gli Stati nazionali europei esercitano un’effettiva sovranità nazionale?
Federazione o Confederazione per il futuro dell’Europa?
Risposta a Piero Ostellino. L’attuale assetto istituzionale comunitario ha oltrepassato il vallo confederale, ma bivacca e non giunge al compimento federale.
di Vincenzo Scichilone  | Articolo del 14.07.2012
Tag: Tag: confederazione, federazione, Stati Uniti d’Europa, crisi istituzionale, processo di integrazione europea, allargamento, Euro

Piero Ostellino, sul “Corriere della Sera” di lunedì scorso, è intervenuto sul dibattito in corso circa l’evoluzione della costruzione europea. Il titolo del suo intervento, «Costruire gli Stati Uniti d'Europa ma resistere alle tentazioni dirigiste», ha una marcata impronta liberale, che condividiamo.

L’Unione Europea è un malato che può riprendesi da solo, ma solo se prenderà coscienza delle proprie forze e se nelle istituzioni politiche che ne sono il fondamento - gli Stati nazione - prevarranno gli anticorpi della conoscenza storica, prodotti dalle guerre europee del XX Secolo.

Oggi, una miscela di euro-burocrazia dalla debole legittimità democratica (oltre che elefantiaca, costosa e autocratica), di fughe in avanti intempestive (Euro e allargamento), di mancanza di coraggio (approfondimento dell’integrazione, magari con un nucleo iniziale ristretto) ha messo in crisi un percorso istituzionale che è più di un’azione transitoria per superare la crisi politica e storica successiva alla Seconda Guerra Mondiale. È un grande esperimento di libertà, per usare le parole in auge in Nord America all’incirca 240 anni fa.

Il ragionamento di Ostellino è puntuale quando richiama il “principio di effettività”: una norma dell’ordinamento deve essere effettivamente rispettata e l’ordinamento deve avere gli strumenti per imporne il rispetto a chi si trova nei confini di quel dato ordinamento. Non è sufficiente che la norma sia enunciata, posta, ne occorre il generale rispetto, indice di esistenza in vita dell’ordinamento stesso. Il concetto è particolarmente rilevante in sede comunitaria con estesi riflessi sugli ordinamenti nazionali. È il nodo di un dibattito che dovrebbe puntare sulla effettiva capacità degli ordinamenti nazionali - preferiamo dire “statali” - a esercitare la sovranità.

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Il quesito più corretto sarebbe però: gli Stati nazionali dell’Unione Europea esercitano effettivamente la sovranità nazionale, sia all’interno che all’estero? O non sono forse sovrastati - scusateci il bisticcio di parole - da un’organizzazione sovranazionale che è originaria (in quanto superiorem non recognoscens) e parzialmente sovrana, ma la cui sovranità è disordinata, preponderante su alcune aree, concorrente su altre, mentre lo Stato nazionale conserva la forma della sovranità stessa ma non più la sostanza?

Piero Ostellino, ragionando su modello seguito nel dibattito tra federalisti e antifederalisti nell’Unione nordamericana di Stati generata dagli Articoli di Confederazione del 1777, giunge alla conclusione che l’Unione Europea dovrebbe evolvere non già verso una “devoluzione” dei poteri a un Super-Stato di marca napoleonica, quindi a una specie di pantomima dello Stato-nazione, ma verso «una Confederazione, attraverso il foedus popolare, non una Federazione, calata dall'alto, sostitutiva della politica con una tecnocrazia autoreferenziale, verticistica, dirigista, intimamente antidemocratica».

Una analisi che non ci convince più nella premessa che nella conclusione, perché un processo federale non è mai calato dall’alto, semmai è avviato da élite responsabili, può essere realizzato solo attraverso un passaggio referendario popolare. Oggi il concetto di suffragio universale è diverso da quello in auge nel 1787 nelle ex colonie nordamericane, ma senza il processo referendario statale - con ratifica popolare - la Costituzione degli Stati Uniti d’America sarebbe rimasta nel limbo dei progetti inattuati.

Diverso è il processo di avvio di una Confederazione, una Lega di Stati, che è un processo eminentemene diplomatico e lascia ai margini il popolo sovrano. In fondo, la Corte Costituzionale tedesca, nell'esame del ricorso sulla legittimità costituzionale della ratifica del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) sta ragionando su una circostanza fondamentale:

Riprendendo le similitudini tra il processo di integrazione delle Tredici ex-Colonie britanniche in Nord America e quello avviato in Europa con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951 (istitutivo della CECA), l’attuale assetto istituzionale dell’unione di Stati sovrani chiamata oggi (dopo il Trattato di Maastricht) “Unione Europea” ha ampiamente superato il livello confederale, ma non è ancora arrivata all’approdo federale, fine ultimo individuato dai Padri Fondatori, seppure ne abbia alcuni aspetti fondamentali, come l’adozione di una moneta unica (ma parziale: non tutti gli Stati dell’UE hanno adottato l’Euro).

Il problema - rileva Ostellino - è quello di una integrazione verticale, ossia di quella pratica tecnico-funzionale attraverso cui gli Stati membri hanno o avrebbero delegato all’Unione Europea la soluzione di problemi che non sono capaci di risolvere da soli, con i limiti e i difetti degli Stati nazionali.

Il punto centrale è esattamente questo. Oggi in Europa, come allora in Nord-America, la questione ruota attorno all’assunzione di responsabilità nel prendere coscienza della realtà storica, nel comprendere i limiti di esercizio della sovranità, nel rilevare il metodo migliore per dare alla “sovranità statale” un valore effettivo. In soldoni, si tratta di capire se e come sopravvivere alla perdita di ruolo dello Stato-nazione.

L’Unione Europea/Confederazione ha i propri “Articoli di Confederazione”: sono i trattati che hanno istituito, modificato e integrato dal 1951 a oggi le istituzioni prima comunitarie, poi europee/unioniste. Il tentativo della “Convenzione sul Futuro dell’Europa” (2001-2003) e del Trattato Costituzionale è miseramente fallito dopo lo stop referendario in Francia e Paesi Bassi. Ma le radici del fallimento, a nostro avviso, erano inscritte nel codice genetico della “Convenzione”, i cui delegati non godevano di una legittimazione popolare diretta e non erano comunque incaricati (anche accettando questo vulnus politico) di scrivere una “Costituzione europea”, ma una sorta di Testo Unico dei Trattati, con l’obiettivo di razionalizzarne le competenze o poco più.

Il percorso era stato avviato nel 2001 con la Dichiarazione di Laeken del 15 dicembre, emessa dal Consiglio Europeo con l’intento di superare il Trattato di Nizza dell’anno precedente e convocante ufficialmente la “Convenzione”, che aveva un duplice ambizioso obiettivo: all’interno, di riavvicinare la distanza tra cittadini e istituzioni europee, quindi di affrontare il nodo del potenziamento dei meccanismi democratici dell’Unione; all’esterno, di affrontare le sfide poste all’ordine internazionale dopo l’attacco agli Stati Uniti d’America dell’11 Settembre.

La “Convenzione” è stata una sorta di soviet politico-burocratico
non legittimato dal voto popolare (al più con legittimazione politica di secondo o terzo grado) e l’iter di costituzionalizzazione dei trattati non poteva che fallire, perché era fallito già nelle premesse il primo obiettivo: riavvicinare i cittadini e le istituzioni comuni.

I cittadini degli Stati membri oggi sentono l’Unione Europea estranea alla propria vita e ne percepiscono più i vincoli che il dividendo in termini di benessere, più gli effetti invasivi che le opportunità. È questa la defaillance più evidente dell’intera classe dirigente europea, politicamente trasversale: non aver impresso al processo di integrazione europea un approfondimento, oltre che un allargamento. In Italia - uno degli Stati fondatori del processo e luogo di elaborazione delle più lucide analisi federaliste - il dettato costituzionale ha lasciato il cittadino estraneo alla formazione delle decisioni, senza che nessuno degli attori del panorama politico avvertisse l’esigenza di chiedere al detentore ultimo del potere (il popolo) la ratifica delle decisioni parlamentari. Con il risultato di non diffondere il dibattito sulle vie da intraprendere per far evolvere la costruzione comunitaria e di rendere evidente ai cittadini degli altri Stati la condizione di minorità intellettuale e politica degli italiani, sudditi e non cittadini.

Man mano che il sistema bipolare internazionale Est-Ovest è collassato, si è diffusa l’illusione che l’Europa potesse “allargarsi” a dismisura, senza darsi una collocazione nel mondo, forse anche con l’incoscienza di demandarne la sostanziale difesa all’alleato nordamericano. L’11 settembre quindi o non ha insegnato niente o le classi dirigenti europee non hanno davvero compreso la sfida storica ovvero la guerra mondiale in atto è stata perfettamente compresa, ma senza il coraggio di renderla evidente a tutti. Del resto, come si fa a spiegare la Prima Guerra Globale, ovvero la prima guerra internazionale e transnazionale della Storia?

In definitiva, l’attuale Confederazione europea ha di fronte a se due sole opzioni: l’implosione e il conseguente disgregamento; l’approfondimento del legame in senso federale, anche a partire da un nucleo ristretto iniziale.

Nella prima ipotesi, l’Unione Europea è destinata in pochi anni a sfaldarsi, mentre gli Stati nazionali saranno fagocitati - in tutto o in parte - da players continentali e globali (Germania? Russia? Inghilterra-Francia?), ma il risultato finale sarà la perdita di ruolo per tutti. Una Germania neo-imperiale, anche se nella forma di un imperialismo economico-fiscale più moderno e apparentemente non bellico, significherà l’attrazione del nord Italia e la separazione del centro sud, lasciato a se stesso o alle mire altrui (ché è evidente un deficit di capacità politica). Il Brasile torna in Europa dalla porta atlantica del Portogallo, dove la crisi economica dona agli ex coloni l’opportunità di una storica vendetta economica.

Nella seconda ipotesi, quella che noi auspichiamo, un nucleo centrale di Stati può perseguire la via dell’unione indissolubile dei destini, attraverso l’istituzione di una repubblica federale d’Europa che assuma i poteri esclusivi nelle macro-aree di interesse comune (difesa, politica estera, moneta, commercio internazionale, sicurezza interna di rilievo continentale), lasciando agli Stati membri la sovranità interna sussidiaria. È la via percorsa dalle 13 ex colonie britanniche nel 1787, nel passaggio dagli “Articoli di Confederazione” alla Costituzione federale con i checks and balances del caso.  È il percorso che Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo - gli Stati che iniziarono il percorso nel 1951 - dovrebbero lanciare.

Una Confederazione non ci serve più, serve uno Stato Federale
con al vertice un monarca a tempo, un presidente eletto dal popoloperché - per dirla alla André Glucksmann - meglio sopravvivere uniti che morire divisi. Serve dunque (repetita juvant) l’avvio di una Convenzione Costituzionale eletta a suffragio universale e diretto, che scriva la Costituzione federale e la sottoponga al voto popolare di ratifica statale. Il tempo stringe. Se le attuali classi politiche non sapranno prendere queste decisioni, saranno responsabili dei tracolli futuri. Non solo di fronte alla ferocia del popolo, ma anche davanti alla Storia.

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