Motori |Marchionne preannuncia il de profundis per il marchio Lancia, di VS - 4.11.2012 | THE HORSEMOON POST -

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Motori |Marchionne preannuncia il de profundis per il marchio Lancia, di VS - 4.11.2012 | THE HORSEMOON POST


MOTORI,  UN DESTINO SEGNATO PER LO SCUDETTO BLU

Marchionne preannuncia il de profundis per il marchio Lancia, scatenando una valanga di ricordi. Un pezzo di vita che se ne va, per molti di noi e per il Paese
di Vincenzo Scichilone | Articolo del 4.11.2012
Tag:   Vincenzo Lancia, Appia, Fulvia HF, Stratos, Beta Montecarlo, 037, Delta S4, Delta Integrale

Lancia Flavia Coupè

Stavo per nascere su una Lancia, per la precisione su una Flavia Coupè di colore grigio metallizzato. Mio padre, giovane concessionario, l'aveva ritirata direttamente a Torino, all'inizio del viaggio di nozze. Se la matematica non è un'opinione, io ero già stato concepito, quindi posso dire che – inconsapevolmente come può fare un ammasso di cellule in movimento, grazie alla vital scintilla divina – fui in giro con i miei genitori, da Venezia a Milano, da Firenze a Roma, per poi tornare in Sicilia. Viaggio di nozze rigorosamente in macchina, in segno di assoluta libertà. Alla fine di giugno del 1966, ad un certo punto feci intendere con anticipo di oltre due settimane, che non ce la facevo più a restare nel grembo materno. Mandai i segnali giusti. Morale della favola, sulla statale tra Caltagirone e Catania sembrava che stessi per nascere. Bivio di Palagonia, per essere precisi.

La vita della mia famiglia, nel bene e nel male, è profondamente legata al marchio
inventato da Vincenzo Lancia. Mio nonno paterno, di cui sono indegno omonimo, scoprì nel 1940 di essere cittadino britannico, eredità dell'origine maltese della famiglia, nell'atto di aderire alla Milizia Fascista, passaggio inevitabile per avere il porto d'armi e continuare a svolgere il servizio di trasporto di linea (con annesso servizio postale) tra Butera e la stazione ferroviaria. Su una Lancia Ardea mio nonno si precipitò verso la Prefettura di Caltanissetta, dove la famiglia era stata convocata con il preannuncio di espulsione (in quanto cittadini di un regno nemico). Il via-vai dovette essere ripetuto e consistente in termini di investimento, ma il problema fu risolto ...all'italiana. Conservo l'attestazione dell'allora podestà, barone Sillitti, i quale attestava che Vincenzo Scichilone riacquistava la cittadinanza italiana precedentemente smarrita.

In epoca più recente, mio nonno materno invece riportò a uno splendore che forse non aveva avuto mai
una vecchia Appia III Serie, spendendo una follia rispetto al valore intrinseco della vettura. Ma c'erano troppi ricordi per rottamarla con ignominia o svenderla a uno sfasciacarrozze.

Uno zio materno fece “il rappresentante” di una casa farmaceutica per molti anni,
a bordo di diverse indistruttibili Fulvia in cui era possibile trovare tutto quanto occorresse per una dimora di più giorni. Eta Beta, in confronto, sarebbe passato per uno distratto e senza fantasia. Quando non ne trovò più, lo zio Gigi passò alle Opel.

Mio cugino Giuseppe scorrazzò per l'Italia su una Fulvia Coupè color Blu Francia
, rigorosamente senza patente fin dall'età di 14 anni, salvo essere beccato dai Carabinieri giusto una settimana prima di compiere i fatidici 18 anni. Processo, condanna e perdono giudiziario come da prassi.

Mio fratello ne seguì le orme. A poche settimane dalla maggiore età,
fu fermato da una pattuglia di Carabinieri davanti l'ospedale di Gela. Qualche ora prima c'era stata una rapina ad una banca, i Carabinieri stavano cercando dei “forestieri”.  Un tizio aveva parcheggiato in doppia fila, mio fratello pensò bene di superarlo come da manuale: flash di abbaglianti (anche di giorno), colpetto impercettibile di clacson, freccia a sinistra, sorpasso da fermo. Troppo belo per essere vero, tanto da sentire subito la sirena di una Alfa Romeo 75 dei Carabinieri, che lo invitavano 8si fa per dire) a fermarsi.

La macchina – una Prisma (la Delta a tre volumi) - era targata Catania perché in leasing
. I carabinieri si erano isospettiti della manovra corretta poco consueta in una città disordinata e caotica come Gela di allora. Ne seguì una successione di scene degne della migliore commedia italiana.

“Patente e libretto” chiese perentorio il milite, subito accontentato
. Ma nel leggere a voce alta i dati, come a ricordarli a se stesso, ad un certo punto il tutore dell'ordine si fermò, come per fare di calcolo: “ma lei non ha ancora diciotto anni!” osservò. “No” fu la risposta, secca quanto rispettosa della divisa. “Ma allora che mi ha dato? La patente della moto?” ribatté la guardia. “Ma perché lei mi ha chiesto quella della macchina?” fu la risposta impenitente di colui che mi ero ripromesso di strozzare già a due anni e mezzo, non riuscendoci per fortuna. Ne nacque una scena madre, con epilogo in caserma.

“Ti ammazzo con le mie mani” gridò mio padre, accorso per capire cosa fosse successo.
Frase ripetuta troppe volte per essere del tutto vera, sicché un maresciallo di lungo corso, con cui c'era conoscenza e consuetudine, capace di distinguere un delinquente vero anche se di famiglia perbene da un semplice incosciente, ad un certo punto non ne poté più e sentenziò: “caro signore, lei qui non ammazza nessuno. La prego, facciamo le persone serie, non la perseguiremo per incauto affidamento” zittendo padre e figlio in un colpo solo.

Guidare senza patente – in un'epoca in cui era ancora possibile in una cornice di sicurezza
diversa e in un ambiente dove ci si conosceva tutti, comprese vita, morte e miracoli – è vizio di cui sono stato affetto anche io, perché guido da quando avevo otto anni. Papà mi cedeva il volante lungo una parte consistente della Gela-Butera, strada provinciale che unisce le due località nella parte sud-orientale della Sicilia. Una ventina di chilometri di curve a ripetizione, tornanti, rettilinei, ottima palestra per imparare a guidare (ammesso e non concesso che il maestro abbia mai raggiunto l'obiettivo). Quante volte ho guidato in quella strada con in mano un volante Lancia non posso dirlo: ma furono tante.

Il marchio Lancia è rimasto nel cuore della mia famiglia nonostante qualche pagina assai sgradevole
, alti e bassi come nella vita di chiunque.

Apprendere che il mitico scudetto blu cobalto di Censin Lancia sia probabilmente destinato a scomparire
dal proscenio mondiale del mercato automobilistico è stato per questo motivo un colpo al cuore, perché la scomparsa segnerà veramente la fine di una parte importante della mia vita.

Colpa di Sergio Marchionne? Non del tutto.
Colpa sicuramente di un'azienda – il Gruppo Fiat – al cui cospetto tutta la politica italiana si è genuflessa in modo vergognoso, assicurandole laute prebende in cambio del mantenimento dei posti di lavoro, ma senza spingere una reale programmazione intergenerazionale che la mettesse al riparo dai marosi dell'economia internazionale. La concorrenza estera, l'emergere dei concetti di qualità del prodotto, la sfida giapponese prima, delle Tigri Asiatiche dopo, hanno mandato a gambe all'aria tutte le certezze cialtrone di una classe dirigente – politica e industriale – non adeguata alle sfide da affrontare.

Se per l'Alfa Romeo il gruppo VW ancora oggi farebbe carte false
, per la più signorile e innovativa Lancia non c'è spazio – almeno per ora – nei progetti della Fiat, che trova più conveniente pensare se stessa come Fiad (Fabbrica Italiana Automobili Detroit). Abbandonate le competizioni, indiscutibile vetrina e, al tempo stesso, dinamica palestra di idee, tecnica, processi di produzione e crescita culturale, il declino è stato inarrestabile.

Ci ha pensato recentemente un preparatore/costruttore – Giuseppe Volta,
insieme all'ingegner Claudio Lombardi, padre della berlinetta campione del mondo nel 1983 – a mettere in campo un'idea innovativa, trasformando una vecchia 037 (per quanto “vecchia” la 037 potrà mai essere) in un prototipo ibrido con trazione anteriore elettrica. A dimostrazione che se si volesse, lo spazio ci sarebbe ancora per quello Scudetto Blu.

Ecco, forse il campo della motorizzazione alternativa sarebbe un ambito
in cui il marchio potrebbe essere speso e impegnato, nel solco di una tradizione che fece delle Lancia auto signorili e innovative. Tutto questo resterà comunque nel libro dei sogni, visto che il governo tecnico di Mario Monti ha individuato nell'auto non un settore da sostenere, per alimentare una ripresa che resta visibile solo ai supereroi, ma un limone da scarnificare, distruggere, dopo averlo spremuto.

Più probabile che quello scudetto resti nella biblioteca dei sentimenti
di chi ha avuto la fortuna di mettersi al volante di un modello ispirato alla filosofia costruttiva del grande costruttore torinese, che rifiutò il destino di giovane avvocato per diventare Vincenzo Lancia. Io non lo dimenticherò mai e credo non sarò il solo.

© Riproduzione riservata


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Traduzione by Google Traslate


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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