Ergenekon, il processo contro i “golpisti” con un forte odore di manipolazione governativa islamista

Le condanne emesse contro i vertici della supposta organizzazione segreta, che secondo i giudici mirava a destabilizzare lo Stato, chiude l’era kemalista e apre la fase neo-ottomana predicata da Erdogan? La battaglia dell’islam politico contro l’establishment laico dei militari

20130809-Ergenekon-Trial-400x214Ankara – La conclusione del processo Ergenekon, con la condanna di 275 persone tra militari, professionisti, giornalisti e semplici civili accusati di fare parte di un’organizzazione segreta che cospirava per destabilizzare il governo di Erdogan con una serie di azioni eversive, compreso l’assassinio del Patriarca ecumenico Bartolomeo, chiude uno dei capitoli più controversi della storia recente della Turchia moderna.

Negli ultimi anni sono state coinvolte nelle indagini circa 500 persone, in prevalenza militari, accusati di voler rovesciare il governo di Erdogan. Non poche, in Turchia e all’estero, sono state le voci di una preoccupante speculazione da parte del governo dell’Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi) mirante a depotenziare in maniera definitiva la forza della burocrazia militare e civile negli affari politici turchi, agendo sulla tradizione golpista “alla turca” delle alte gerarchie militari.

Il primo giudice dell’affare Ergenekon, Kioskal Sengun, è stato sollevato dall’incarico, forse perché erano noti in via riservata tutti i dubbi sulla reale consistenza delle accuse. Sengun ha dichiarato infatti che «durante il processo non sono stati trovati dei collegamenti diretti con gli atti per i quali sono stati accusati». Un processo insomma che ha assunto un carattere politico e che cambierebbe in modo quasi definitivo la prospettiva istituzionale della Turchia.

Le pene inflitte – sia in termini di multe che di detenzione – e in particolare la condanna all’ergastolo per l’ex capo delle Forze armate turche, generale Ilker Basbug, sono stati interpretati come la prevalenza del primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, contro il potente (un tempo) establishment militare, custode dell’impronta kemalista su cui è stata edificata la Turchia post-ottomana, tra paternalismo statalista e nazionalismo laico.

Una laicità – affermano i critici musulmani – che non voleva affermare la separazione tra Stato e religione, ma intendeva affermare una sottomissione della religione allo Stato. Un Cesarismo in salsa islamica. Questo indirizzo si era tradotto sia nella unificazione forzata delle diverse scuole della religione musulmana dell’Impero ottomano sotto lo slogan “Una razza, una nazione, una lingua”, sia sulla epurazione di altre comunità non musulmane.

Come ha sottolineato Nat da Polis in un articolo su AsiaNews, Kemal Ataturk impose un «modello “occidentale alla turca”, per cui la religione islamica va messa sotto il controllo dello Stato. “Alla turca” perché in questo Paese tutto è stato imposto dall’alto, senza alcun processo democratico. D’altronde la presenza dell’esercito turco nella gestione degli affari politici ha avuto la funzione di reprimere ogni deviazione dalla via retta imposta».

Una conformazione strumentale alla sottrazione del potere ai vari sceicchi e alle varie compagnie religiose musulmane, strumenti essenziali del potere califfale, considerata la duplice veste politica-religiosa del Sultano su tutti i musulmani. La separazione religione/Stato avrebbe comportato una parcellizzazione del potere politico, che invece Ataturk intendeva centralizzare secondo il modello napoleonico.

Nat da Polis sostiene nel suo articolo che la “Turchia profonda” – quella rurale e comunque vivente lontano dai grandi centri abitati – avesse accettato obtorto collo questa sottomissione della religione in un modello turco-islamico, ma non l’avesse di per se assorbito nel profondo. Sarebbe questa Turchia a godere delle condanne dell’affare Ergenekon, perché significherebbe una “rivincita islamica” grazie a Erdogan, uscito vittorioso dalle elezioni del 2011 sia con il supporto della popolazione rurale che di quegli strati della borghesia urbana, che mal digerivano la forza sullo Stato espressa dal mondo militare.

Secondo Nat da Polis, il neo-Ottomanesimo di Erdogan non sarebbe la rinascita vera e propria dell’Impero, ma è un surrogato ideologico che intenderebbe costituire una sintesi di kemalismo e islam politico. Questa ideologia è il risultato di una certa osmosi che si sta verificando da alcuni decenni in Turchia tra una parte dei kemalisti e una parte dell’islam politico turco. Va messo in rilievo che mentre l’economia kemalista faceva perno su una concezione statalista dell’economia, i seguaci dell’islam politico abbracciano le idee economiche liberiste.

La sentenza dunque segnerebbe una svolta storico-politica per la Turchia, perché segnerebbe la fine del kemalismo e l’avvio di una fase sincretica kemalista-islamista.

L’analisi di Nat da Polis è fondata, ma valuta in modo distratto almeno due aspetti.

Il primo riguarda l’appello cui ricorreranno i condannati dell’affare Ergenekon. La magistratura turca ha mostrato di possedere forti risorse di indipendenza anche di recente, in riferimento alla cementificazione forzata di Gezi Park, una decisione che produsse i moti di protesta costati la vita anche a cinque persone. Le manifestazioni ebbero vasta eco nel Paese e un generoso supporto dell’opinione pubblica, con un contraltare giudiziario, visto che la procedura fu bloccata da una corte amministrativa di Istanbul.

Il secondo aspetto riguarda quell’effetto di sostituzione dell’influenza dei militari nel potere politico, spesso accusati di agire al di fuori di ogni controllo. Queste accuse oggi sono rivolte ai maggiorenti provinciali del partito di Erdogan e non è detto che la popolazione accetti nuovamente un tipo di influenza della politica nella vita quotidiana, avendo avversato quella dei militari.

Le proteste degli ultimi giorni a sostegno dei militari, dei professionisti, dei giornalisti e degli esponenti della società civile coinvolti in quello che appare come un pretesto per regolare i conti, sono la plastica dimostrazione che per la laicità dello Stato – e non per il laicismo – c’è ancora spazio.

Insomma, non darei per scontato il successo della svolta kemalista-islamista inferta dalla sentenza Ergenekon, forse i giovani turchi – questa volta senza virgolette, nel senso di popolazione giovane – sono più vicini ai loro coetanei egiziani e tunisini, in lotta per un bene immateriale assai affascinante: la libertà.

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