Birdman, o le imprevedibili virtù dell’egocentrismo

Anche in una commedia a tinte nere e grottesche, Alejandro González Iñárritu non rinuncia alle sue tematiche preferite, riemerse potenti grazie a un Michael Keaton strepitoso

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Quella di Alejandro González Iñárritu non è una filmografia prolifica: cinque film nell’arco di quindici anni non sono molti, è vero, ma neanche pochi. Dal fulmineo esordio di “Amores perros” all’approdo a Hollywood con “21 grammi”; dalla consacrazione a Cannes con “Babel” alla piena maturità di “Biutiful”.

Che piaccia oppure no, il cinema di Iñárritu continua per la sua strada con una continuità e una coerenza strabilianti. Amore e morte, i temi che affrontavano i suoi primi lavori guidati dalla penna di Guillermo Arriaga: una costante ricerca della felicità condivisa, dell’autoaffermazione attraverso l’approvazione altrui, scandita dalla coralità delle vicende. Come a voler trovare la chiave del proprio pensiero attraverso un respiro più ampio che, se nel film d’esordio era in perenne esplosione, nei successivi due si era un po’ affievolito (complice l’irruzione a Hollywood, dove tutto è studiato nel dettaglio e la spontaneità non sempre paga – a livello monetario s’intende).

La (prima) svolta avviene con “Biutiful”, un ritorno alle origini e lontano dai fasti e dalla condiscendenza hollywoodiana: non più una storia corale, ma un ventaglio d’emozioni tutte catalizzate da un’unica anima in pena rielaborata magnificamente dal volto e dal corpo di Javier Bardem (che strappa la Palma di miglior attore a Cannes). Tornano ancora i temi centrali, tanto cari al cineasta messicano, quell’amore (stavolta di un padre, che a sua volta ne è privo, verso i figli) indissolubilmente legato alla morte, non più vista come maligna o violenta. La morte diventa una flebile luce che riscatta l’uomo dall’abisso e dalla desolazione in cui riversa gli errori di una vita.

Tutto questo folgorante excursus ha portato inevitabilmente a Birdman, ma con delle modalità del tutto imprevedibili. Cambia il terreno di scontro (si passa dal dramma alla commedia nera), cambia l’approccio ai personaggi (non più empaticamente enfatizzati, ma resi freddi, quasi asettici) e infine cambia la regia (con l’uso incessante del piano-sequenza).

Già dopo i primi minuti di girato ci si rende perfettamente conto che lo sguardo del regista è stavolta sacrificato allo sguardo del suo personaggio: tutto il film è indubbiamente una rappresentazione visiva di ciò che viene percepito da Riggan Thompson, l’attore decaduto impersonato splendidamente e con un’aura di destabilizzante verità artistica da Michael Keaton, le cui vicende pubbliche sono maliziosamente citate nella pellicola.

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Ecco quindi spiegata l’apparente freddezza dei personaggi che circondano Thompson; Thompson è Birdman, ma è anche Edward Norton che è Emma Stone che è Naomi Watts (tutti eccelsi); questi, anche dove splendidamente caratterizzati, non spodestano mai dal centro della scena la figura chiave di Keaton, perché essenzialmente non sono altro che sue emanazioni, versioni distopiche tanto dei “reali personaggi” quanto dei corrispettivi attori – vedi l’ammiccamento alla natura intrattabile sul set di Edward Norton.

Il labirinto dell’anima, rappresentato dalle grandi metropoli nei film addietro (da Città del Messico alle periferie di Barcellona) è qui caratterizzato dai mille corridoi e camerini di un teatro di Broadway, nel quale Riggan Thompson medita sugli errori di una vita, riversa le sue più impronunciabili paure, sfoga la sua perversa schizofrenia arrivando a interpretare quel testo di Raymond Carver su cui sembra modellata la sua vita e i suoi fallimenti (così come Keaton è il corrispettivo reale di Thompson in un continuo gioco metanarrativo).  

L’accusa di far sfoggio di un virtuosismo registico esasperante è sradicata alla radice: quelli che vediamo palesarsi dinanzi ai nostri occhi non sono più sinuosi movimenti di macchina, bensì corrispondono agli occhi e alle movenze di Riggan Thompson/Michael Keaton, che tutto osserva e tutto assoggetta al proprio punto di vista.

Inevitabilmente non tutto s’incastra alla perfezione in questa quinta opera dell’autore messicano; tanti, forse troppi, i temi accennati – non sarebbero bastate altre due ore per snodarli tutti. Appare evidente, allora, come siano ancora una volta le costanti di Iñárritu a raggiungere una conclusione che soddisfa pienamente lo spettatore: amore e solitudine, le due mete a cui la figura carismatica di Riggan Thompson tende incessantemente, con un’incoscienza spropositata e necessaria al suo ego.   

La percezione e lo scorrere incessante della vita non hanno montaggio. Persino nell’enfatico finale (o nei multipli finali) si avverte quell’incessante esuberanza figlia del personaggio principale. Fino alla fine, nonostante le numerose conclusioni che ne sono state ricavate, il punto di vista non cambia e non perde mai la sua tragicomica dignità.

Nominato a 9 premi Oscar (tra cui Miglior Film, Regia e Sceneggiatura originale), Birdman uscirà nelle sale italiane giovedì 5 febbraio.

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