Hiroshima, città simbolo dell’orrore nucleare

Breve reportage di una giovane di 35 anni in Giappone, passando per una città martire della Seconda Guerra Mondiale, come Dresda, come Coventry. In tempi di rischi di proliferazione, studiare il terrore atomico è istruttivo per tutti: la Pace è un bene da preservare con tutti i mezzi. Una terribile lezione di storia

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È una bella giornata di sole. Parto di prima mattina da Kyoto in direzione Hiroshima. Effettuo tutti gli spostamenti alla scoperta del Giappone, dove sono da una decina di giorni, con lo Shinkansen, (il famoso bullet train), treno super veloce e puntualissimo. Ciò che, però, mi sorprende, è che un popolo silenzioso e ordinato come quello giapponese, abbia la capacità di generare molta confusione e chiasso durante i viaggi. Noi italiani al confronto, potremmo sembrare degli svizzeri. Ogni minuto, infatti, il mio tentativo di riposo viene interrotto o dal lancio di qualche pubblicità, (che in Giappone ti perseguita davvero ovunque), sugli schermi televisivi presenti all’interno dei vagoni o dalla hostess di bordo che desidera propinarmi improbabili…per me…cibi a base di alga.

Arrivata a Hiroshima, lascio il mio bagaglio in un coin lokers (deposito bagagli, ndr) e dopo un viaggetto su un treno regionale e 15 minuti di battello, arrivo a Miyajima,”l’isola in cui convivono uomini e dei”, un luogo considerato sacro per la presenza del santuario di Itsukushima del 593 d.C., dedicato alla dea custode dei mari. Ha la caratteristica di essere stato costruito in parte nel mare a poche decine di metri dal largo, con edifici su palafitte e con un gigantesco Torii, l’ingresso del santuario scintoista.

20130702-Little_boyFaccio una passeggiata in questo luogo incantevole, dove tra coloratissimi aceri si incontrano dei cervi mansueti. Assaggio il prelibato cibo locale, delle ottime ostriche a pocchissimi centesimi.

Ritorno a Hiroshima. Al primo impatto la città appare ai miei occhi molto pulita e estremamente moderna. Imperano anche qui i “depatment tore” – come pronunciano i giapponesi, marcando l’inglese con il loro accento –department stores, centri commerciali, ove i brand ricorrenti sono Vuitton, Chanel, Marc Jacobs, Apple (…non c’è giapponese che non possegga l’ultimo modello di telefonino di Cupertino) e il più accessibile Uniqlo.

Prima di andare a mangiare faccio un giro nelle strade commerciali: Heiwa-Odori, Aioi-dori e Hondori. Ceno con un okonomyaki, piatto agro-dolce cucinato su una piastra bollente e dall’impasto molto ricco di ingredienti: fettine di foglie di cavolo, acqua, farina, uova e – a seconda dei gusti – carne, seppie, gamberetti e altro ancora. Ci sono diversi locali aperti. Bar e ristoranti dalle abbaglianti insegne a neon si mescolano, come in tutto il paese, con i locali a red lights.

La mattina dopo mi sveglio presto e mi incammino verso l’Hiroshima Peace Memorial Museum, il vero motivo della mia visita alla città. Entro in una struttura ultra moderna. Alla biglietteria ci sono delle signorine molto gentili, che mi forniscono il ticket di ingresso e un’audio guida in italiano. Sono appena le 9.00 e c’è già tantissima gente.

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Rimango subito colpita dalle foto e dai video che testimoniano che quel 6 agosto del 1945 era un giorno d’estate col cielo azzurro, un giorno che sembrava essere simile a tanti altri. Ma alle 8.15 a.m. con il lancio di little boy, il nome dato dagli americani all’ordigno, il destino dell’intera città sarebbe cambiato per sempre. Di colpo solo l’oscurità, fuoco e fumo. Su una popolazione di 350 mila abitanti, se ne salvarono solo 100 mila, che probabilmente avrebbero preferito morire anche loro, piuttosto che vivere una vita di sofferenze estreme.

La prima parte del museo è dedicata a come era Hiroshima prima della bomba e al momento dello “sgancio”. La seconda parte è quella emotivamente più complessa da affrontare: ci si accede tramite una finta città in fiamme e da lì iniziano le testimonianze. Mi immergo nelle storie di quegli esseri umani, sottoposti a tanta barbarie: il bambino di tre anni carbonizzato sul suo triciclo, la mamma che totalmente ustionata riesce a tornare a casa per dire addio ai suoi figli, l’uomo ustionato i cui familiari lo riconoscono solo dalla voce. E poi ancora le immagini di persone con deformazioni causate dalle radiazioni, le foto, i racconti, gli oggetti di una tragedia, di quegli orrori che per anni negli USA sono stati chiamati casualties, come se l’uccisione di tanti civili fosse un corollario, una conseguenza inevitabile.

20130702-hiroshima_500x356Nel dolore che mi pervade l’anima, mi è tornata in mente dopo tanti anni la lezione di storia su “the atomic bomb” del mio professore del liceo. Hiroshima era stato il luogo prescelto dagli Stati Uniti, poiché privo di deportati americani e la bomba doveva servire, in una logica del terrore, a limitare le richieste post belliche dell’URSS.

In totale silenzio sono uscita dal memorial, dopo aver letto in ultimo le lettere che il sindaco della città manda costantemente ai grandi della Terra, chiedendo di fermare gli esperimenti nucleari, perché quanto avvenuto a Hiroshima non si ripeta e non si dimentichi. Ho iniziato a camminare nel Peace Memorial Park, il parco della pace, e guardandomi intorno ho visto con occhi più attenti una città viva e gioiosa intorno a me. Mi sono fermata a riflettere. Gli scienziati americani avevano pronosticato che a seguito della bomba non sarebbe cresciuto più nulla su quel suolo per quasi ottant’anni. Una mattina, come viene raccontato nel museo, crebbe sull’asfalto una fogliolina verde, timida, piccola, ma che per molti rappresentò un miracolo e un monito per ripartire. Intere generazioni sono state abbattute in un minuto, ma quello che la bomba non distrusse è stata la dignità del popolo di Hiroshima. La città si è rialzata solo con l’ausilio delle forze della sua gente, che ha ricostruito tutto da zero e ha ricominciato, basti pensare che a pochi giorni dalla tragedia era stato rimesso in funzione ciò che rimaneva della tranvia.

Una bambina delle elementari col suo caratteristico cappellino giallo, ferma con me davanti al Genbaku-No-Ko-No-Zo, monumento dedicato ai numerosi bambini che subirono le drammatiche conseguenze delle radiazioni, mi guarda e mi sorride, scaldandomi il cuore. Ricambio.

Riprendo il mio viaggio nel Sol Levante con una valigia più pesante, carica di emozioni indelebili.

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Giada Gibilaro

2 pensieri riguardo “Hiroshima, città simbolo dell’orrore nucleare

  • 02/07/2013 in 22:02:04
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    Grazie davvero. Giada

  • 02/07/2013 in 16:51:13
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    Brava Giada. I miei sinceri complimenti.
    Roberto

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