Il mondo tra ricerca, lirismo e amore: Terrence Malick

Prima parte di un viaggio dedicato al regista texano Palma d’Oro nel 2011: 1973-1978, da Badlands a Days of Heaven.

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Kit (Martin Sheen) volta le spalle a “un sole indifferente in mezzo al deserto” in Badlands

Fin dagli esordi quello di Terrence Malick è da sempre stato considerato, a ragione, un cinema ai margini, capace di stravolgere delle tematiche ampiamente sfruttate e commercializzate per poi piegarle ai suoi fini. Artefice di una poetica/dialettica unica e tuttora priva di qualsiasi imitazione sincera, il regista texano insegue in ogni suo lavoro quella perfezione stilistica e narrativa che dal 1998 a oggi contraddistingue i suoi ultimi lavori; non che la prima parte della sua filmografia ne sia estranea, anzi, si tratta di una vera e propria maturazione di quei temi che dal principio erano meno evidenti ma che sarebbero poi diventati il marchio di fabbrica di questo straordinario cineasta.

Come detto, risulta molto difficile inquadrare Malick in un determinato genere, ma gli elementi comuni nei suoi film ci sono eccome, anche se spesso e volentieri si rivestono di un significato opposto da un lavoro all’altro oppure quest’ultimo viene meglio spiegato e caricato concettualmente. Nonostante una filmografia tutt’altro che prolifica (solamente sei film nell’arco di quasi quarant’anni), ogni film di Malick è un tassello nel suo mistico quadro e, naturalmente cosa più importante, è un’opera d’arte a se stante. La critica certamente non è stata esente dallo scagliarsi contro il suo modus operandi, soprattutto negli ultimi due lavori, ma è la croce di ogni profeta che in anticipo sui tempi non ottiene mai l’immediato riconoscimento che gli andrebbe attribuito in maniera unanime.  

Per capire quindi al meglio il lavoro di questo “esploratore” della settima arte è necessario operare una netta divisione di periodi nella sua filmografia: la prima è quella che comprende i suoi primi due lavori dietro la macchina da presa, ovvero Badlands (da noi uscito col titolo La rabbia giovane) e Days of Heaven, la seconda riguarda il suo ritorno in attività con The Thin Red Line, e non è affatto un caso che tra questo suo terzo film e quello precedente intercorrano la bellezza di vent’anni. Terza e ultima parte (del discorso non certo della sua opera, che ad oggi continua) è rappresentato dal trittico di film comprendente The New World, The Tree of Life (Palma d’Oro al Festival di Cannes 2011) e To the Wonder (quest’ultimo in uscita il 4 luglio in Italia).

A dispetto dell’inappropriato titolo italiano nel film d’esordio per Malick non vi è alcuna rabbia esibita dai due giovani protagonisti interpretati da Sissy Spacek e da un giovane Martin Sheen, il quale (come la pellicola ha modo di esplicitare subdolamente) si era fatto notare da subito per la sua somiglianza con il leggendario James Dean. Badlands, di fatto, si riferisce alle terre deserte e sconfinate che delimitano gli stati nei quali si svolge la vicenda di Kit e Holly. La loro è apparentemente una fuga d’amore, ma il film non va inserito affatto nel filone “on the road”. Il percorso dei protagonisti è già segnato, per niente programmato, ma lo spettatore sa già benissimo quale piega prenderanno gli eventi: Kit, dopo aver ucciso il padre di Holly, si dà alla fuga con quest’ultima alla disperata ricerca di un obiettivo che non arriverà mai a concretizzarsi.

Quello che più stupisce dello sguardo del regista texano al suo primo film è proprio nella caratterizzazione di due personaggi che reagiscono in maniera quasi indifferente alle loro azioni (Kit uccide con una freddezza disarmante mentre Holly non batte ciglio); la loro struttura e i loro movimenti procedono per assurdo generando una sorta di straniamento in chi osserva (Kit che sale su una vacca morta, sceglie la strada da seguire facendo roteare una bottiglia ma poi decide arbitrariamente, spara alle gomme della sua auto proprio quando pare aver seminato la polizia che lo inseguiva).

Ecco che allora si palesa l’intento di Malick: il rapporto tra paesaggio e l’uomo, le terre desolate ritrasmettono quell’apatia interiore che contraddistingue i personaggi meschini di Kit e Holly, come un sole indifferente in mezzo al deserto. La natura, quindi, veicola il messaggio del regista e diventa simbolo non di speranza (come lo è nei classici film on the road), ma di morte e desolazione; questo concetto non riflette il pensiero secondo cui la natura sia la fonte stessa della morte, al contrario il paesaggio è scelto appositamente per far risaltare con prepotenza lo stato d’animo dei protagonisti; si potrebbe obiettare che nella prima parte del film la realtà messa in piedi da Kit e Holly nei boschi, dove costruiscono una specie di rifugio simile alla mitologica Arcadia, sia un rovesciamento di quanto detto finora; in realtà esso costituisce soltanto la rappresentazione di un cliché tipicamente americano. Chiarissimo fin dall’esordio, il cinema di Malick ambisce a mettere in piedi una vera e propria mitologia del linguaggio cinematografico, l’impostazione della macchina da presa è prevalentemente a inquadratura fissa, sistema che andrà sempre più scemando nelle opere successive, (i primi sentori si hanno già nel successivo Days of Heaven).

Richard Gere immortalato da Néstor Almendros in un frammento di Days of Heaven.
Richard Gere immortalato da Néstor Almendros in un frammento di Days of Heaven

Il secondo film di Terrence Malick è meno compatto e omogeneo del suo predecessore, sia nella modalità delle inquadrature (che qui si caricano di significati ben più profondi e lirici), sia nel contenuto. Il titolo è ripreso alla lettera da un brano del Deuteronomio (“Imprimetevi dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole (…) affinché i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, nel paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri, durino quanto i giorni del cielo sulla terra”) e incanala già la pellicola nel binario religioso. Fin da subito l’intento del racconto filmico è quello di costruire un’armonia nella narrazione, visibile nella serie di foto storiche che fanno da accompagnamento ai titoli di testa, ma soprattutto dalla diversa rilevanza che contraddistingue la voce off rispetto al film d’esordio; questa, infatti, non si limita soltanto nella descrizione degli eventi con l’aggiunta di qualche considerazione personale, al contrario è parte integrante dell’atmosfera del film, carica di enfasi e lirismo, riconducibile quasi a una oscura forma di presagio. Le affermazioni di Linda (colei che narra gli eventi) fungono da raccordo per gli stacchi temporali, ma hanno anche la funzione di caricare di significato simbolico l’intera vicenda; si potrebbe quindi affermare che le voci off sono due e distinte benché appartenenti alla stessa persona: una è quella che narra la vicenda, l’altra, sovrapposta alla prima, è una considerazione post-facto, una specie di esortazione altamente religiosa sulla sorte toccata ai personaggi.

Nel passaggio dal primo al secondo film non può passare inosservato il mutamento che si attua nella connotazione del paesaggio: se in Badlands lo spettacolo arido e apatico della natura era il riflesso del vuoto interiore dei suoi protagonisti, in Days of Heaven la campagna diventa per sineddoche la vita stessa, carica di forza e spinta propositiva che riesce a estrapolare il meglio dalle persone. I campi di grano densamente occupati dai lavoratori vengono continuamente celebrati nelle inquadrature di Malick e risplendono grazie alla luce solare fornita da un cielo perennemente sereno e paradisiaco. Come non bastasse, Malick si serve (per la prima volta) della colonna sonora per caricare ancor di più il senso lirico-religioso della storia e lo fa chiamando in causa Il carnevale degli animali: acquario di Camille Saint-Saens; il maestro Ennio Morricone adatterà poi le sue melodie prendendo spunto proprio da questa iniziale composizione, la quale verrà ripetuta nelle scene in cui la pace e la condizione idilliaca sembrerà inattaccabile (come quando Bill, Abby e Linda si ritrovano a vivere nella casa del fattore dopo il matrimonio – ricollegabile all’avventura arcadica del primo film).

L’atmosfera idilliaca però è destinata a infrangersi, così come la voce off fa presagire: sempre coerentemente alle tesi religiose avanzate dalla pellicola, la rottura dell’equilibrio non arriva dalla natura, o meglio dai campi (simbolo di vita), ma da fattori esterni (come le locuste che piombano dal cielo similmente alle piaghe bibliche) o dall’uomo stesso (malvagio), incarnatosi nelle sembianze diaboliche del fattore, che aizza il fuoco per difendersi e bruciare ogni cosa cedendo alla rabbia e alla gelosia.

Più di Badlands anche quest’opera appare non catalogabile in nessun genere cinematografico, stratificato com’è nel suo svolgersi e accessibile a diverse forme d’interpretazione. Quello che è evidente è il cambio di registro effettuato a livello tecnico da Malick, sebbene prevalga ancora un sistema di inquadrature fisse, si avverte la voglia di lasciarsi andare e di slegarsi da certe forme troppo rigide; lo conferma l’uso particolare della colonna sonora e la ricostruzione pressoché curata nel dettaglio dei numerosi quadri (pittorici) formati dalla messa in scena e restituiti in maniera impeccabile dalla fotografia di un grandissimo Néstor Almendros.

Le tecniche presentate in forma grezza e primordiale in questi film del 1973 e 1978 offriranno a Terrence Malick numerosi spunti di riflessione sui quali il regista texano mediterà per i successivi vent’anni, prima di rimettersi dietro a una macchina da presa e inaugurare la seconda parte della sua dialettica in forma di lungometraggio.

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