Cultura

Malick: Vita e Morte sospese nella guerra dell’anima

Seconda parte del viaggio nel cinema di Terrence Malick: 1998, The Thin Red Line

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Il soldato Witt (James Caviezel), personaggio centrale della vicenda

“Salvate il soldato Ryan è un film di guerra, La sottile linea rossa è un film sulla guerra.”

Il dizionario Morandini usa questa espressione per definire l’opera con cui Terrence Malick decide di tornare nel mondo del cinema dopo un’assenza durata vent’anni; tanto è passato dal suo ultimo film, Days of Heaven, e il modo con cui il cineasta si era chiamato fuori dallo star system in una sorta di auto esilio volontario lo ha portato inevitabilmente a scontrarsi con la figura (per certi aspetti) analoga di J. D. Salinger.

Proprio per questa sua ritrosia nei confronti del pubblico, la sua timidezza, il suo non voler assolutamente rilasciare interviste o essere fotografato (salvo in rarissime ed eccezionali occasioni), la sua filmografia recente non potrà mai essere spiegata in maniera definitiva. È indubbio che tutte le sue opere riflettano una ricerca interiore incessante, e naturalmente non possono prescindere dalle esperienze personali. Anche (e soprattutto) per questo motivo non mi sento di ricalcare l’espressione sopra citata del Morandini per riassumere un film, The Thin Red Line, anche stavolta non catalogabile nei noti generi cinematografici.

Sicuramente non è un film di guerra, anche perché non di ode un solo colpo d’arma da fuoco nella prima ora di girato, tuttavia la formula “film sulla guerra” troppo semplicisticamente campata in aria sembra qualcosa che rimanda inevitabilmente a una dissertazione filosofica sul conflitto e sulle sue ragioni intrinseche. Il titolo stesso è stato spesso oggetto di dibattito, nonostante una certa maggioranza della critica specializzata lo ricolleghi (un po’ frettolosamente) al verso di Rudyard Kipling («Tra la lucidità e la follia c’è solo una sottile linea rossa»), già a una visione attenta del film di Malick si può facilmente notare come ben poco spazio venga concesso ad argomenti come la follia e la lucidità, che sono concetti affrontati in senso più lato dall’autore. Il concetto fondamentale, veicolato da una “lucidità” (quella si) tecnica senza precedenti e che mostrano i segni di un approfondimento e uno studio di gran lunga assorbiti da un regista non ancorato agli anni settanta, è il dualismo venutosi a costituire in campo di battaglia tra Vita e Morte; un rapporto che mette in risalto la prima come la seconda, ma anche le loro più sottili sfumature: ecco che quella “sottile linea rossa” potrebbe demarcare il confine tra quelle che noi chiamiamo vita e morte, e come spesso queste si confondano se immesse in un panorama “limbo” esplicitato da un conflitto privo di senso tra uomini.

Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di James Jones e racconta le vicende di un plotone di soldati americani inviati nell’isola di Guadalcanal al fine di strapparla dalle mani nemiche dei giapponesi nel 1942, in piena seconda guerra mondiale. La pellicola, che si esprime attraverso le voci dei suoi numerosi protagonisti, è quindi un film corale e grazie a questa formula i concetti già ampiamenti espressi nei precedenti lavori del regista si caricano di una forza inedita e molto più incisiva. Ricorre il tema della natura in via simbolica, stavolta protagonista di un’ambivalenza di significato: è rappresentata prepotentemente dall’elemento dell’acqua (la prima sequenza ne costituisce un chiaro esempio). Sorgente di vita e di beatitudine, l’aspetto sacro degli elementi della Terra sostituisce e in un certo senso amplifica quello religioso di Days of Heaven; l’acqua è la manifestazione della Grazia come condizione di spiritualità suprema e definitiva che l’uomo deve continuamente ricercare e che potrà raggiungere solamente tramite la perfetta consapevolezza del suo posto nel mondo. Leitmotiv di tutto il film, il capitano Staros più attento alla salute dei propri uomini che al successo della missione (al contrario del colonnello Tall) chiederà insistentemente rifornimenti d’acqua per il suo squadrone. L’acqua è anche luogo di morte, la palude (dove l’acqua si mischia alla sabbia) sarà il palcoscenico del sacrificio del personaggio principale interpretato da James Caviezel. 

La natura sarà un gancio inviato agli uomini per raggiungere quella sacralità fine ultimo cui ogni vita deve aspirare, ma nelle sue sembianze terrene essa appare ancora una volta indifferente a tutto ciò che la circonda (nel bel mezzo della battaglia, all’avanzare minaccioso in mezzo ai boschi) e le inquadrature non fanno che rimarcare questo concetto (le immagini dei panorami o delle radure sterminate appaiono calme, prima e durante gli attacchi dei soldati).

La guerra, semplice ma fondamentale pretesto, mette in evidenza sotto un’altra luce le varie vicende interiori che muovono i protagonisti della pellicola; così il sodato semplice Witt spera in una morte calma, come quella riscontrata nella madre pochi mesi prima di partire per il fronte, non prima di aver avuto una chiara esperienza di una vita “nuova” come può esserla quella degli indigeni dell’isola con i quali si ritroverà a convivere dopo aver disertato dal suo servizio. Witt percepirà l’esistenza di un altro mondo (“A volte penso solo di averlo immaginato”), un mondo sconfinato e assolutamente slegato da confini di ogni sorta. Quel mondo gli si rivelerà varie volte nel corso del film, e la mano di Malick diventerà via via più riconoscibile, da un guizzo nella candela (o nel fiammifero) alla luce che filtra tra le foglie degli alberi tutt’intorno ai soldati.  

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La manifestazione della Grazia tramite i raggi del sole che penetrano la natura indifferente

Il caso del soldato Bell è singolare: egli partecipa attivamente alla guerriglia come parte importante del suo plotone d’attacco, ma nei momenti di tregua vive intensamente il ricordo della moglie lasciata sola a casa in attesa del suo ritorno, tormentandosi continuamente con i pensieri di quella che prima era la sua vita. Bell affronta una sorte di Non-vita che si ricollega direttamente al concetto di sospensione espresso dal film. L’episodio è arricchito dai continui flashback del soldato, che più tardi s’illuderà di poter riprendere da dove aveva interrotto, ma l’amore è un’illusione di felicità e puntualmente arriva la disfatta tramite una lettera che annuncia la richiesta di divorzio della moglie.

Il cielo, altro elemento simbolico e ricorrente nella filmografia del regista, è qui inquadrato come luogo di spiritualità estrema; a esso si rivolgono gli sguardi dei soldati morenti che esalano l’ultimo respiro e, al contrario della natura (indifferente), è come se aspettasse e partecipasse alle vite degli uomini sottostanti.

Dal punto di vista tecnico stupisce non poco il cambio di stile registico tra questo ritorno e i primi due lavori di Malick: il suo non è più un sistema di inquadrature fisse, che anzi vanno sempre più scomparendo dal suo registro. Frequenti sono invece i movimenti di macchina raso terra, del carrello e del cosiddetto “low-angle shot” in movimento (sistema che vanta tra i suoi utilizzatori più celebri anche Orson Welles in Touch of Evil o Stanley Kubrick, più precisamente in Full Metal Jacket, non a caso altro film non propriamente “di guerra”).

La macchina segue sinuosa i movimenti dei soldati sopra le colline, attraverso la melma paludosa di una palude, si velocizza nelle intense scene di battaglia, dove l’uso intelligente della colonna sonora intensifica l’emozione e il senso della violenza altrimenti poco percepito. Il senso di smarrimento cui i protagonisti partecipano è restituito in pieno dalle inquadrature di Malick, attente nel non indicare mai la minaccia fornendo più controcampi che campi.

Altro elemento noto al cinema malickiano è la voce off: per la prima volta essa non appartiene a un solo personaggio, ma se ne potranno distinguere molte, più o meno importanti. Le principali sono del soldato Witt, la voce narrante che funge da collegamento per l’intera vicenda; del soldato Bell, fulcro sentimentale dell’opera; del colonnello Tall, stratega e simbolo concreto della guerra.

Tuttavia, la voce più altisonante (e che definisce i contorni spirituali della storia) appartiene a qualcuno estraneo alle vicende dei protagonisti, inoltre essa è come se s’impossessasse di qualche personaggio (ad es. il soldato Witt) e lo usasse da tramite. La possiamo sentire nel prologo e in conclusione, a delineare e a tirare le fila di un discorso filosofico di elevata grandezza (“Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura? Perché la natura lotta contro se stessa? Perché la terra combatte contro il mare? C’è forza vendicativa nella natura”). Nel caso specifico di Witt: “Chi sei tu per vivere sotto tutte queste forme? Tua è la morte che cattura tutto; tua è anche la fonte di tutto ciò che nascerà. Tua la gloria, tua la pietà, la pace, la verità. Tu dai riposo allo spirito, comprensione, coraggio. Il cuore rassereni, oh Signore”.

In effetti, la mancanza di questa voce off di carattere filosofico non snaturerebbe del tutto il senso di un film che ha nella sua alternanza tra voci e immagini la sua forza, ma l’eco di una cultura tipicamente americana (il trascendentalismo in particolare) verrebbe a mancare. Degna d’essere citata, questa però è un’altra storia, che ci farebbe deragliare parecchio dal percorso prestabilito.

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