Dall’Accademia della Crusca una breve guida all’uso di accenti e apostrofi nell’italiano

Al netto degli errori di digitazione, a volte si leggono svarioni da prestidigitazione… Per evitare magie, in tempi di scrittura social montante, consigliamo di leggere questo breve vademecum assai istruttivo

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L’uso dell’accento grafico in italiano è diventato stabile dal Novecento per i polisillabi tronchi (città, virtù, longevità). Costante è anche la presenza dell’accento in un numero, in realtà limitato, di monosillabi composti da due grafemi vocalici: ciò, già, giù, più, può, scià, in cui i ed u sono solo segni grafici.

Si aggiungano le forme letterarie, e disusate, piè ‘piede’, diè ‘diede’ che, come , vengono indicate a volte con l’apostrofo. Tale alternanza tra accenti e apostrofi per alcuni monosillabi è controversa, ad esempio il DOP (Dizionario di ortografia e di pronunzia) indica come errata la forma pie’, e riconosce soltanto per il troncamento di ‘piede’ piè e diè per la voce del verbo ‘dare’. Per (‘fece’) segnala anche fe e fe’ pur rari.

Come troncamento di ‘fede’ si dà solo , da cui deriva la parola composta autodafé, che introduce alla questione dell’accento di polisillabi composti con un originario monosillabo finale: per quanto detto all’inizio sull’uso dell’accento coi polisillabi, è chiaro che anche in questi casi, essendo il polisillabo tronco, si deve usare l’accento grafico (ventitré, rossoblù, nontiscordardimé, Oltrepò).

Si consideri ora l’uso dell’accento (e dell’apostrofo eventualmente) con i monosillabi che si scrivono con una sola vocale. L’accento si indica solo nei casi in cui occorra disambiguare il monosillabo per l’esistenza di un omografo; i casi più comuni sono:

  • ché: accentato solo come forma abbreviata di ‘perché’ o, più raramente, di ‘affinché’; mentre è sempre che in tutti gli altri usi, anche in quello sostantivato: non è un gran che, ha un certo non so che; dopo di che vedremo. È diffusa e ammessa la forma con scrizione sintetica granché;
  • : presente indicativo di ‘dare’; da è preposizione. L’imperativo richiederebbe da’ (‘dai’), ma questa forma e gli analoghi imperativi fa’ (‘fai’), sta’ (‘stai’) e va’ (‘vai’) non sono universalmente accolti sia dall’uso reale sia dai grammatici, pertanto si può scrivere semplicemente da, fa, sta, va (forme tradizionali affiancate da quelle apostrofate nel fiorentino ottocentesco);
  • di’ o imperativo di ‘dire’; ‘giorno’, ma per altri (cfr. SERIANNI 1989: I 242) solo di’ vale per l’imperativo di ‘dire’ (dal latino DIC) distinto in tal modo dalla preposizione di e dal sostantivo ;
    è vale per la forma verbale mentre e per la congiunzione;
  • e sono gli avverbi mentre la è articolo e li pronome atono;
  • è congiunzione (non voglio mangiare né bere); ne pronome o avverbio; e ne’ vale per la preposizione articolata maschile plurale nei, ormai antiquata, come gli altri maschili plurali a’, de’, co’, pe’, e gli aggettivi be’ e que’;
  • indica il pronome, che essendo sempre tonico deve essere scritto con l’accento: le pur diffusissime varianti se stesso, se medesimo, contrariamente a una diffusa opinione, non sono pertanto giustificate; se indica il pronome atono usato talora in luogo di si (se lo mangia) e la congiunzione; se’  è forma disusata per ‘sei’;
  • è l’avverbio e si il pronome e la nota musicale;
  • indica la bevanda (ed è preferibile a the e thè); te è il pronome; si possono segnalare anche le forme antiquate te’ sia per ‘eccoti’ sia per ‘tieni’.

Un’ultima osservazione sull’apostrofo. I troncamenti di ‘piede’ e ‘fede’ si scrivono piè e , ma per ‘poco’ si ha po’ con l’apostrofo, l’unica forma, sia chiaro, codificata e ammessa dall’ortografia attuale e indicata dalle grammatiche. Solo come curiosità si segnala la proposta (in LEONE 1969) di estendere a tutti i monosillabi tronchi l’apostrofo, purché sia ancora viva la coscienza del troncamento, mentre, a parere d’altri, “il partito migliore sarebbe quello di eliminare addirittura l’apostrofo come segno dell’apocope sillabica, scrivendo semplicemente po (il quale non può confondersi con Po, che vuole la maiuscola), to e toh, ve o veh, be o beh, mo e fe” (SERIANNI 1989: I 245).

Per approfondire:

  • Arrigo Castellani, Sulla formazione del sistema paragrafematico moderno, “Studi linguistici italiani”, XXI 1995, pp. 3-47;
  • Alfonso Leone, Norme ortografiche: perché po’ ma piè?, “Lingua nostra”, XXX 1969, pp. 117-18;
  • Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini, Piero Fiorelli, Dizionario di ortografia e di pronunzia, ERI-Rai, Roma, 1999;
  • Luca Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino, UTET, 1989 [si indicano il numero di capitolo e di paragrafo].

[Nota pubblicata sul sito dell’Accademia della Crusca a cura di Mara Marzullo]

Fonte: Accademia della Crusca