‘Third Person’, Paul Haggis continua ad ambire a un’autorialità che non gli appartiene

Il film del regista premio Oscar per “Crash” è l’ennesimo buco nell’acqua di una carriera mai decollata veramente

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Quando uno script come quello di ‘Third Person’ arriva sulla scrivania di un produttore sono due gli scenari possibili: o lo si riduce in mille pezzettini dopo aver letto le prime righe, o lo si consegna a un regista degno di questo nome e che abbia un certo gusto per le storie d’impostazione corale.

Nessuna delle due opzioni è stata seguita, dato che è stato lo stesso Paul Haggis a scrivere (e riscrivere) ‘Third Person’. Un film completamente sbagliato, dove neanche la regia avrebbe potuto giocare un ruolo chiave nel trasmettere quel calore emotivo insistentemente ricercato. Il film soffre, infatti, fin dalle prime scene del difetto di voler subito suggerire come si evolveranno le vicende, ma soprattutto di svelare quale sia la chiave attraverso cui interpretare l’intero (multi)racconto.

Regista del sopravvalutato “Crash – Contatto fisico”, Haggis è passato poi al dramma d’inchiesta (caruccio, ma tutto sommato innocuo) “Nella valle di Elah”, per poi concedersi un incursione nel thriller (ir)realistico di “The Next Three Days”, risalente ormai al 2010.

La pellicola arriva nelle sale italiane a ben due anni dalla fine delle riprese, con lo stesso regista impegnato più volte a scrivere e riscrivere un finale, che anche fosse stato perfetto non avrebbe risollevato le sorti di un prodotto molto ambizioso, ma in realtà blando e soporifero nelle finalità. D’altronde quando è lo stesso autore a dubitare della propria creatura, non ci si può aspettare nulla di buono.

Senza scendere troppo nei dettagli, si seguono tre storie d’amore, pur nelle sue diverse sfumature, in tre città del mondo: da Roma a Parigi per arrivare a New York; Haggis, però, sceglie di optare per un montaggio assassino che non permette allo spettatore di affezionarsi nemmeno a uno dei suoi tanti personaggi, finendo per rendere il tutto molto difficile da digerire, soprattutto quando la durata oltrepassa abbondantemente le due ore. Ci riuscivano i Wachowski, ma “Cloud Atlas” era un film ambizioso sia nelle intenzioni che nella tecnica impressionistica con cui venivano dosati i molti effetti speciali.

Per di più, arrivati alla resa dei conti, il povero spettatore è costretto a sorbirsi una conclusione che più che beffarda e telefonata (il regista canadese non resiste al dover creare un collegamento fra tutte le trame), risulta stonata e imbarazzante.

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