La condanna in appello nel processo Mediaset rafforza Silvio Berlusconi

Il cambio di strategia processuale, con la nomina di Franco Coppi, mostra che dopo aver incassato il colpo, Berlusconi potrà incassare la vittoria in Cassazione o di fronte la Consulta

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La sentenza di conferma della condanna in appello di Silvio Berlusconi e di altri imputati per frode fiscale nel processo d’appello per i diritti tv Mediaset, con un verdetto identico a quello del primo grado, si presta a due tipi di commenti. Il primo sul processo, sulle premesse giudiziarie, sulle argomentazioni della difesa, sull’ipotesi di “accanimento” da parte della procura e del tribunale di Milano. Il secondo sui riflessi politici che la sentenza di condanna in appello avrà sull’attività del governo e del processo di radicale riforma necessario al Paese per uscire da un “medioevo istituzionale” in cui è rintanato.

È prassi consolidata nei Paesi civili e democratici non commentare le sentenze, perché una sentenza giudiziaria – anche sbagliata – è sempre emessa da un’istituzione sacra. Se così non fosse, si aprirebbero pagine buie e tempestose per quel Paese in cui le istituzioni giudiziarie partecipassero in qualche modo al gioco politico. Certo, agli osservatori in qualche modo neutrali (visto che il voto a Berlusconi lo abbiamo ritirato molti anni fa, per manifesta incapacità a realizzare le riforme liberali per cui lo avevamo votato), non sfugge il fatto che questo imprenditore sia stato riverito e rispettato fino a che, salvando la parte moderata della politica italiana sconvolta dalle inchieste sulla corruzione politica, decise di entrare in politica. Ma è un riferimento che vogliamo fare en passant, senza rifletterci troppo. Non commenteremo la sentenza.

A noi preme ragionare invece sugli effetti che la condanna di Berlusconi – per una frode fiscale di poco meno di tre milioni di euro, nello stesso periodo in cui ne versava all’erario più di cinquecento – avrà sulla politica italiana. In uno Stato che garantisce il terzo grado di giudizio al più feroce dei criminali, sarebbe quanto meno strano se se ne chiedesse l’immediata esecuzione degli effetti civili (interdizione dai pubblici uffici per cinque anni), prima del giudizio di legittimità della Suprema Corte. Ancor di più se la stessa attività del Tribunale di Milano è soggetta al verdetto della Consulta, in merito a un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato sollevato nel marzo del 2010, in merito all’ordinanza con cui il tribunale aveva negato il rinvio di un’udienza per legittimo impedimento.

Giudizio che – lo ricordiamo – se favorevole alle tesi dell’allora presidente del consiglio dei ministri, avrebbe l’effetto di segare alla base l’intero procedimento ab initio, con buona pace dei complottisti in servizio permanente effettivo, pronti a gridare al “colpo di spugna”.

Non vale affatto la pena di soffermarsi sulle teorie circolanti in merito alla cosiddetta ineleggibilità di Silvio Berlusconi, cui si potrebbe tendere se la sentenza di ieri della Corte di Appello meneghina trovasse conferma in Cassazione: sarebbe la prova che Berlusconi manteneva le funzioni imprenditoriali anche durante l’espletazione del mandato parlamentare. Circostanza che farebbe scattare la norma prevista da una legge del 1957, in virtù della quale chi è titolare di una concessione pubblica o è rappresentante legale di una società che fa affari con lo Stato non può essere eletto in Parlamento.

Sulla questione, peraltro è intervenuto il presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, che ospite di Gad Lerner nel programma “Zeta” lo scorso 22 marzo, aveva espresso un giudizio personale ma di grande rilievo: «Berlusconi letteralmente non si trova in quelle situazioni» perché il presidente di Mediaset è Fedele Confalonieri, mentre Berlusconi è solo uno dei proprietari.

L’argomento “ineleggibilità” è secondo noi una cialtronata degna della peggiore ignoranza istituzionale e costituzionale, anche se è stata posta da Micromega e raccolta, con un colpo di bagher politico, dal Movimento 5 Stelle.

Ieri è stato invece significativo sia il relativo basso profilo tenuto dal Pdl, a parte qualche dichiarazione fatta trapelare alla stampa nazionale, che derubricheremmo alla voce “atto dovuto” (tipo quelle della Santanché). Il basso profilo è stato l’ordine di battaglia del Pdl, ma il silenzio più rilevante è stato quello mantenuto dal principale partito di opposizione teorica a Berlusconi, teorica solo perché oggi il Pd è unito al Pdl in un’esperienza di governo “di servizio al Paese”, viste le in condizioni straordinarie. Il Pd è impegnato nella soluzione dei problemi di governance interna, con estrema lungimiranza i maggiorenti del Nazaremo hanno scelto di non occuparsi delle beghe altrui.

Ma questo ai nostri occhi dice anche un’altra cosa, ossia che la condanna di ieri rafforza Berlusconi, non lo indebolisce. Per almeno quattro motivi.

Anzitutto, con il cambio di strategia difensiva e il subentro del professor Franco Coppi al “falco” Niccolò Ghedini, Berlusconi ha scelto di separare la politica dalle sue questioni giudiziarie, che risulteranno contornate da un cordone sanitario di professionalità intonsa dalla politica stessa. Coppi è uno straordinario combattente in toga, non ha bisogno di brandire lo status di parlamentare per farsi ascoltare in ogni sede.

In secondo luogo, malgrado la rabbia comunicata all’esterno e le critiche al Tribunale di Milano, Berlusconi sa che il giudizio della Consulta sul conflitto di attribuzioni sollevato nel 2010 ha buone probabilità di essere favorevole, di fatto radendo al suolo l’intero edificio processuale fin da quando è partito. Con l’ombra della prescrizione, che scatterà nel giugno del 2014.

In terzo luogo, se questa scattasse, Berlusconi potrà argomentare con fondatezza che l’eventuale prescrizione sarà scattata per colpa del Tribunale di Milano stesso, che rifiutò di considerare un legittimo impedimento dell’allora presidente del consiglio italiano, e rafforzerà di conseguenza tutti i ragionamenti sulla persecuzione giudiziaria mirata a eliminare un avversario politico per una via diversa da quella democratica.

Ma c’è un ulteriore fattore che gioca a favore di Berlusconi e ne lega le sorti giudiziarie alle fortune italiane, più che del governo presieduto da Enrico Letta: la situazione di crisi in cui versano le istituzioni europee, che oggi festeggiano la propria festa, nel 63° anniversario della Dichiarazione Schuman. Può permettersi l’Europa unita, nel pieno della più grave crisi istituzionale dall’avvio del processo di integrazione, di mettersi al pari di nazioni non del tutto democratiche (come l’Ucraina), escludendo con una sentenza giudiziaria la personalità politica più votata della storia repubblicana? La Consulta e poi la Cassazione dovranno operare con attenzione agli aspetti giuridici, ma non potranno negare un effetto dello spirito costituzionale europeo sulle vicende italiane, che oggi riguardano Berlusconi, domani potrebbero interessare ciascun cittadino della Penisola.

Per questi motivi, noi pensiamo che Silvio Berlusconi – malgrado la rabbia manifestata per mera circostanza – ieri sera sarà andato a letto con più serenità. Salvo stravolgimenti pericolosi per la nostra democrazia, Berlusconi se non potrà agire come “padre ricostituente” della nazione, potrà senza dubbio sfoggiare tutto l’armamentario interpretativo che gli servirà per passare ipso facto da co-salvatore della Patria, contribuendo a fare uscire il Paese dalle sabbie mobili in cui è bloccato da almeno trentanni. Ipotesi diverse contemplano gli scontri fratricidi, un’ipotesi cui non vogliamo pensare neanche come semplice operazione accademica.

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