Malick: Esplorazioni cosmiche e “nuovi mondi”

Terza e ultima parte del viaggio nel cinema di Terrence Malick: 2005-2011, The New World e The Tree of Life

Pocahontas immersa nella natura in The New World
Pocahontas immersa nella natura in The New World

In The New World, uscito nel 2006, il metodo con cui Terrence Malick si approccia alla settima arte produce un nuovo significativo balzo in avanti. La pellicola, per alcuni la meno riuscita nella sua filmografia (cosa che non rientra nei pensieri di chi scrive), è un netto superamento e miglioramento di alcune tecniche prima solamente abbozzate dall’autore che qui producono un grande risultato complessivo. Il film può essere considerato come un ponte tra la sperimentazione di The Thin Red Line e il discorso ben più approfondito e ampliato esposto in The Tree of Life, dove non potranno sfuggire certi evidenti rimandi.

Prima di tutto è il titolo stesso dell’opera, apparentemente chiaro, a generare alcune perplessità sul tipo di tema che Malick ha intenzione di sviluppare; il film come consuetudine non è incasellabile né nel genere storico (di cui però è un solido esempio, seppur indiretto), né in quello propriamente d’azione con punte melodrammatiche piuttosto forti (come lo era da questo punto di vista The Last of the Mohicans di Michael Mann).  The New World: di quale mondo nuovo stiamo parlando? Le interpretazioni sono svariate, la più immediata delle quali è naturalmente riscontrabile nel punto di vista degli inglesi giunti su quella che diverrà Jamestown. In questa interpretazione il “mondo nuovo” è appunto il continente americano scoperto da Colombo ed ora terra di colonizzazione per l’Europa intera. Un altro significato è assimilabile al “mondo nuovo” di cui John Smith diventa partecipe una volta fatto prigioniero dai Powathan; qui verrà salvato grazie all’interdizione della figlia del capo tribù, la principessa Pocahontas. Insieme a lei, Smith imparerà a conoscere le vie della Grazia, evidenti nel rapporto che i nativi vivono ogni giorno nel loro rapporto con la natura. La terza interpretazione è una sorta di sintesi delle prime due: il “mondo nuovo” sarebbe costituito dall’incontro tra i due mondi, quello “metropolitano” di matrice europea e quello “selvaggio” dei nativi americani. Questi due mondi incontrandosi, anzi proprio nel momento dell’incontro, producono la nascita di qualcosa di completamente nuovo, un nuovo mondo appunto.

La natura e le sue componenti (come l’acqua e il cielo) sono direttamente associate alla principessa dei Powathan, perché essa stessa è simbolo di una nuova forma di vita, completamente appagata nel suo ambiente e dedita anima e corpo alle manifestazioni della Grazia spesso evocate come sorta di “madre” di tutte le cose. Così come precedentemente mostrato in The Thin Red Line, qui il discorso sulla sacralità della natura viene ulteriormente arricchito, stavolta però anche un essere corrotto come il capitano John Smith potrà esserne partecipe. Il discorso non muta quindi la sua concezione, anche se alcuni aspetti cambiano o ritornano a emulare vecchi esempi: la natura, al contrario del film precedente, non è affatto indifferente. Essa, infatti, è come scossa dall’avvicendamento degli inglesi che bramano in cerca del prezioso oro per il loro Re. L’elemento del fuoco torna ad essere portatore di negatività, strumento utilizzato dall’uomo per distruggere (come nell’episodio del fattore demoniaco in Days of Heaven). La breve ma intensa storia d’amore tra Smith e Pocahontas è solo la quiete che precede la tempesta, Smith sa perfettamente che la pace appena abbracciata è destinata a spezzarsi (così come Kit sa che la sua cattura è inevitabile in Badlands).

Di notevole impatto emotivo sono le scene della battaglia tra i nativi e gli inglesi, pregne di una violenza che non avevamo visto nemmeno nella guerra di Guadalcanal in The Thin Red Line. È chiaro che la violenza perpetrata nei confronti di una natura così pacifica come quella dei nativi e contro un paesaggio puro e immacolato, agli occhi di Malick sia ben più sconvolgente.

Mai prima di The New World la potenza della colonna sonora era stata messa così in risalto, per questo motivo indico il suo quarto film come l’inizio di un nuovo ciclo che poi sublimerà nei due successivi; la musica diventa non solo strumento per enfatizzare scene densissime di significato simbolico o emotivo ma personaggio a se stante nell’opera. Da questo momento in avanti sarà di fatto impossibile separare la componente visiva da quella sonora nei film di Malick. In The Thin Red Line avevamo qualcosa di simile, ma era ancora a una fase embrionale e sperimentale, che qui raggiunge la sua effettiva collocazione. Gli elementi narrativi acquistano così una maggiore enfatizzazione ponendosi su un’altra dimensione: l’incontro tra Smith e Pocahontas è ben ritmato dall’inserzione del Concerto per pianoforte n°23 di Mozart. L’oro del Reno di Wagner (il prologo è usato a conclusione della pellicola) è come una resa dei conti, un tirare le fila della vicenda da parte del suo autore: Malick sembra appunto indicare quale sia il vero oro da trovare e custodire con desiderio, non quello cercato dagli inglesi, bensì l’armonia o Grazia vissuta dagli indiani.

Jessica Chastain è la manifestazione della Grazia nella conclusione onirica di The Tree of Life
Jessica Chastain è la manifestazione della Grazia nella conclusione onirica di The Tree of Life

The Tree of Life è il trionfo di una musicalità portata ai suoi massimi livelli e resa totale dall’uso sincronizzato che Malick ne fa grazie all’ausilio delle splendide immagini. Dalla dimensione di macrocosmo a quella di microcosmo, tutto è funzionale a creare la perfetta atmosfera di rappresentazione della sinfonia della nascita della vita e del suo perpetuo fluire. Ogni minimo particolare è, al solito, studiato nel dettaglio e tutti gli elementi (non più semplicemente della natura ma) del cosmo sono esaltati e ammirati per scatenare la stupore dello spettatore prima ancora che del personaggio sullo schermo; Malick di fatto produce una ricca esperienza emotiva e visiva nei suoi personaggi proprio per arrivare senza strade secondarie al cuore dello spettatore, che a suo volta si sentirà trascinato da questa vorticosa avventura, esperienza dei sensi.

Tutta la prima parte di questo immenso capolavoro (non a caso insignito della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2011) è dedicata all’esposizione della vita in un macrocosmo: si passa quindi da una serie di inquadrature che vanno dagli elementi determinanti che compongono il quadro naturale esposto finora (fuoco, acqua, aria e terra) alle cascate d’acqua che combaciano perfettamente con i fiumi di lava, il tutto catalizzato dal brano Lacrimosa di Zibigniew Preisner. Passiamo poi alla Terra, la vita che inizia a generarsi con i primi microrganismi unicellulari dall’acqua (le forme circolari evidenti in queste immagini rimano incredibilmente con i pianeti del cosmo).

Tree-of-Life89È la sequenza centrale, però, a esplicitare le intenzioni dell’opera. Dal macrocosmo passiamo al microcosmo, messo sotto la lente d’ingrandimento attraverso le vicissitudini della famiglia O’Brien in una cittadina del Midwest; il compito di Malick è di rendere evidente ciò che poco prima si era solo intuito (dalle peripezie di un cucciolo di dinosauro). La prima parte è interamente dedicata alla figura paterna (splendidamente tradotta sullo schermo da Brad Pitt) la quale si carica dei valori intrinseci della Natura: egli è portatore di una visione darwinistica della vita, carica di competitività, dove solo il più forte non rimane indietro.

Nella seconda parte di questa sequenza centrale è la figura della madre a predominare (una Jessica Chastain in “stato di grazia”), ella è un’evidente espressione di quella figura già ampiamente enunciata in The New World, colei che vive in pace e in armonia con il cosmo, con la natura, espressione della Grazia.  Proprio come in The New World, numerose sono le inquadrature della fanciulla dal basso tendenti verso il cielo, mentre quest’ultima volteggia nel giardino fiorito; come per Pocahontas l’acqua è l’elemento che le appartiene e la descrive (emblematico il momento in cui disseta i condannati); la terra grezza appartiene invece alla natura del padre (come quel piccolo orto che tenta di accudire con tanta dedizione).

Sono figure, come detto, che ritornano insistentemente nel cinema del regista-filosofo texano, se è vero che la signora O’Brien è assimilabile alle figure di Pocahontas o, seppur parzialmente, del soldato Witt, quella del signor O’Brien fa il paio con lo scettico sergente Welsh e John Smith, che pur rendendosi conto della Grazia che li circonda scelgono comunque di continuare sulla strada dell’esperienza e della lotta piuttosto che abbandonarsi alla fede (“Hai trovato le tue Indie, John? Le troverai” domanda la principessa dei Powathan  – “Forse le ho superate”  risponde Smith, rendendosi conto dell’errore commesso nel lasciarla andare).

Il mondo nuovo assume in questo film le sembianze di un ricordo, ricordo nel quale un Jack O’Brien (Sean Penn) ormai cresciuto decide di abbandonarsi per rivalutarli sotto un altro aspetto, un diverso punto di vista, analizzando le opposte figure dei genitori e riuscendo infine a perdonare le colpe di un padre troppo severo, ma giusto e di una madre troppo gentile ma sacra nell’onirico finale, ultima illusoria consolazione e conclusione di un aspetto saliente della conoscenza, quella di un mondo che non appartiene alla sfera del reale. La fede, in qualunque forma essa si manifesti sembra concedere una speranza di redenzione agli uomini mortali e, di conseguenza, l’abbattimento di ogni genere di rimpianto che potrebbe accompagnarci in questa vita. 

L’atmosfera prettamente filosofica della pellicola oltre che dalle costanti inserzioni musicali (splendido l’inserimento dell’Agnus Dei di Belrioz nella parte finale) è ritmata anche dalle provvidenziali voci off, le quali assurgono ad una funzione unicamente interiore. Sia quella del padre, che della madre, che di Jack adulto non fanno che riflettere il pensiero del personaggio e della sua effettiva personificazione, abbandonando l’uso narrativo proprio delle precedenti voci off impiegate dal regista. In questo modo le voci che udiamo sono del tutto impersonali, megafoni rispettivamente della Natura e della Grazia.

Ecco perché The Tree of Life è come se non avesse un nucleo narrativo pulsante, bensì scorresse autonomamente per arrivare senza freni, dritto allo spettatore, che si sentirà tramortito dalle immagini, dalla musica, dai suoni, dai rumori, dalla poetica di questo meraviglioso cineasta. 

Sean Penn nella scena finale di The Tree of Life
Sean Penn nella scena finale di The Tree of Life

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