Esteri

Egitto, l’errore di scambiare le elezioni con la democrazia (sondaggio)

Tamaroud non sa come dirlo: non è un golpe! L’errore dei media occidentali di considerare la discesa in campo dell’esercito un atto contro la libertà del popolo egiziano, non una forma di impeachment richiesto dal doppio dei votanti di Morsi

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Mohammed Morsi ha vinto le elezioni presidenziali del 2012 prendendo 13 milioni di voti al secondo turno. Due anni dopo, al termine di una sequela impressionante e dolorosa di violenze dei Fratelli Musulmani, di persecuzioni contro cristiani e musulmani sciiti, di islamizzazione forzata della società, con un progetto di imposizione della sharia come legge unica dello Stato, dopo aver manipolato la Costituzione, di dichiarazioni di odio contro Israele, la svolta.

Ventitré milioni di cittadini egiziani hanno chiesto, firmando una petizione con nome e cognome, esponendosi alle rappresaglie degli sgherri della Fratellanza la richiesta di dimissioni di un presidente considerato usurpatore della libertà degli egiziani.

«Tutto quello che noi desideriamo è vivere in un Paese libero, dove tutti gli egiziani abbiano uguali diritti, siano essi maschi o femmine, musulmani o cristiani, o persone di altre fedi religiose» ha scritto un giovane egiziano (del quale si tace l’identità per motivi di sicurezza) coinvolto nelle proteste contro i Fratelli Musulmani, indirizzando una lettera all’agenzia di stampa cattolica AsiaNews.

In un Paese retto da una legge fondamentale che non aveva l’istituto dell’impeachment, non c’era altro modo di arrivare alla sollevazione di Mohamed Morsi, che non prevedesse il ricorso massivo alla violenza popolare. Un passaggio che i giovani rivoluzionari popolari di Tamaroud non hanno voluto compiere, perché aborrono la violenza, vogliono vivere in pace e sicurezza, in un Paese libero dall’odio.

L’Occidente continua a non capire, i media occidentali sono criticati in modo aspro, perfino la posizione della Casa Bianca è errata, forse perché guidata dalle indicazioni di un’ambasciatrice – Ann Patterson – rivelatasi ignorante o in malafede nel sostenere Mohamed Morsi solo perché eretto alla presidenza della repubblica egiziana tramite elezioni.

Si corre il rischio, seguendo la Patterson, di scambiare lo svolgimento di elezioni più o meno democratiche con la democrazia, un fatto pericolosissimo. La radice di questo fraintendimento assoluto è interpretare le istituzioni altrui con il metro di quelle del proprio Paese. È forse legittimo un presidente accusato di brogli provati e conclamati, che viene eletto con quasi la metà dei voti di chi ne chiede le dimissioni? Non si rischia di fare una confusione tra forma e sostanza politica? Soprattutto, non si sbaglia a interpretare i processi politici egiziani con il paradigma con cui si analizzano quelli statunitensi?

La bassa affluenza alle urne è un dato consolidato negli Stati Uniti, dove votare è un diritto – non un dovere – e in quanto tale si deve esercitare con atti deliberati (iscrizione nelle liste elettorali, etc). In Europa la bassa affluenza alle urne genera allarme, perché il modello di democrazia europea considera il voto un diritto/dovere: il mancato esercizio equivale in parte a delegittimazione del sistema.

I giovani di Tamaroud/The Rebels non sanno più come dirlo ai media occidentali, tanto da averlo scritto in più lingue in piazza Tahir. Non comprendere quel messaggio sarebbe un grave errore politico per chi regge le istituzioni statali in Occidente; una pessima distrazione per i media occidentali.

In Egitto l’intervento dell’Esercito è rivolto al salvataggio del Paese, a sostenere una rivoluzione per la modernità, ad assicurare un passaggio di testimone politico alle nuove generazioni. Una classe dirigente non s’inventa da un giorno all’altro, ma quel che accade al Cairo, in Sinai, ad Alessandria e in tutto l’Egitto non è un colpo di Stato militare: è una rivoluzione democratica. Che ci piaccia o meno, che lo si riconosca o meno.

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