Ventitre scatti d’autore per ricordare al mondo il genio di Michelangelo

Le Cappelle Medicee celebrano l’imminente 450° anniversario della morte del simbolo del Rinascimento

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“Giunto è già il corso della vita mia | con tempestoso mar per fragil barca | al comun porto, ov’a render si varca | conto e ragion d’ogni opra trista e pia” è con il sonetto 114 che Michelangelo Buonarroti si licenziava dalla vita. Il 18 febbraio ricorre il 450° anniversario della morte di questo genio irrequieto del Rinascimento italiano e Firenze – la città che diede le origini alla sua famiglia e dove si formò e operò – lo saluta con la mostra “Il potere dello sguardo” nella suggestiva cornice del Museo delle Cappelle Medicee.

Ventire scatti in bianco e nero del fotografo d’arte Aurelio Amendola raffigurano le sculture della Sagrestia Nuova di San Lorenzo , il David e i Prigioni secondo un suggestivo percorso espositivo in tre sezioni: un primo gruppo di immagini – 15 per l’esattezza – ubicate nella parte centrale della cripta delle Cappelle, altre 4 stampe di grandi dimensioni dell’imponente David nella tribunetta di destra – insieme alle sepolture di Cosimo I de’ Medici – mentre una terza sezione propone le foto dei Prigioni, in mostra nella tribunetta opposta dove riposano Ferdinando I, la moglie e i figli.

Grazie alla sinergia tra la Soprintendenza del Polo Museale Fiorentino e il gruppo editoriale UTET Grandi Opere – FMR sono state donate al Museo delle Cappelle Medicee altre due stampe del pistoiese Amendola che raffigurano alcuni dettagli dei disegni murali della “stanza segreta” della Basilica di San Lorenzo dove si pensa che Michelangelo si rifugiò durante l’assedio di Firenze del 1530 e dove lasciò testimonianze straordinarie della sua arte.

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Occhi mesti, schiene nude, mani nervose, sguardi penetranti si aprono agli spettatori svelando particolari inediti dei marmi michelangioleschi che la Soprintendente del Polo Museale Fiorentino, Cristina Acidini, ha definito “angolature inaspettate e insospettabili”.

Ciò che all’occhio comune potrebbe sfuggire viene catturato dall’obbiettivo di Aurelio Amendola che rivela l’inquietudine delle Allegorie del Tempo – le cui caratteristiche somatiche ne fanno bellezze universali adagiate mollemente sui sepolcri dei duchi – a cui si contrappone la sonnolenta statua della Notte che, prendendo la parola in alcuni versi dello stesso Buonarroti, chiede di non essere destata poiché la sua serenità deriva dal sonno, fonte di straniamento dalla realtà.

Qualche passo e possiamo scrutare tra i diversi stati di finitura dei Prigioni fiorentini, nel cui non-finito è sintetizzata la pratica di scolpire “per forza di levare” di Michelangelo che soleva dare una prima visione al blocco per poi definire i dettagli eliminando il materiale circostante.

La lotta con la materia inerme, la spinta di liberazione dalla pietra grezza, carcere e trappola per le statue pronte a acquisire un’autonomia estetica è stata letta da diversi critici d’arte come frutto di una precisa volontà di Michelangelo, non legata quindi semplicisticamente alla sua tecnica scultorea.

La materia si dimena per farsi forma, l’irrequietezza dell’uomo diviene scontro con la natura, la stessa che, molti anni prima, un Michelangelo ventiseienne aveva sconfitto attraverso il suo David, protagonista indiscusso della mostra fotografica alle Cappelle Medicee.

Simbolo della armonia anatomica e della forza dell’intelletto, sin dalla sua prima apparizione l’eroe biblico, in attesa di Golia, fu acclamato come espressione dello splendore e della virtù di Firenze nonché – secondo i sostenitori della Repubblica – della democrazia e della libertà. Esplicite le parole usate dal Vasari nell’edizione delle Vite del 1550 “e veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche o latine che elle si fossero […] perché in essa sono contorni di gambe bellissime et appiccature e sveltezza di fianchi divine; né mai più s’è veduto un posamento sì dolce né grazia che tal cosa pareggi, né piedi, né mani, né testa che a ogni suo membro di bontà d’artificio e di parità, né di disegno s’accordi tanto. E certo chi vede questa non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o ne gli altri da qualsivoglia artefice.”

Negli scatti di Aurelio Amendola viene condensata la scelta dell’artista alle prese con questa epica sfida, mettendo in primo piano i particolari del David, probabilmente scolpiti in soli 18 mesi. Appaiono quindi lo sguardo fiero e concentrato sul gigante che nessuno mai aveva osato sfidare, le vene in rilievo per sottolineare la tensione del corpo, i muscoli contratti quasi a trattenere il respiro. L’immagine del pastore pronto a caricare il sasso nella fionda è imponente e vera grazie allo studio certosino delle linee del corpo umano; non si tratta di un eroe armato di tutto punto ma di un uomo nudo e al tempo stesso immortale come una divinità greca.

Immutabili e alteri i sublimi marmi si lasciano ammirare dallo spettatore avvinto che può solo fermarsi in “religioso” raccoglimento di fronte alla grandezza di Michelangelo dipanata attraverso quei luoghi di riposo medicei da lui stesso concepiti.

Sembra quasi di sentire i leggeri rintocchi dello scalpellìo dell’angel divino cantato da Ludovico Ariosto  mentre con passione e devozione dà anima e forma alla candida pietra.

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