Babadook, l’Uomo Nero è più terrificante di come lo ricordavamo

Tra Stanley Kubrick e Roman Polanski, l’esordio alla regia di Jennifer Kent trova l’orrore nel rassicurante nucleo famigliare composto da una madre e un figlio

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Amelia lavora da parecchi anni presso una casa di cura per anziani e vive sola in casa con il figlio di sei anni, con il quale ha instaurato un rapporto che va dall’amore sconfinato e incondizionato a una sorta di odio represso, perché Samuel è nato proprio il giorno della morte del padre. In più, un inquietante libro per bambini, che racconta la storia del minaccioso Babadook, ossessiona Samuel fino a fargli credere della reale esistenza del mostro, aumentando a dismisura lo stress patito da Amelia.

Un esordio folgorante quello di Jennifer Kent alla regia di questo horror capace sia di ricalcare tutti gli stilemi del genere, ma con una grazia e una perizia tecnica in grado di rilanciarne il significato artistico ed estetico. Quello dell’australiana è un film ricco di rimandi ai grandi maestri, da Mario Bava a Stanley Kubrick, da Tim Burton a Roman Polanski e un secco rifiuto alla moda recente di mettere in scena gli horror (James Wan e compagnia dicendo); nonostante (o soprattutto) i pochi mezzi a disposizione, la pellicola scorre fluida e si fa vanto della sua essenza minimalista e delle sue perfette geometrie, grazie anche a un’ottima direzione degli attori. Difatti, la potenza delle immagini e delle suggestioni ricreate dalla macchina da presa, unite a un sonoro che in più punti lascia a bocca aperta (per il terrore puro), giustificano la quasi assenza di dialoghi – anch’essi funzionali e mai banali.

Lo stesso utilizzo dei più abusati cliché (finestre che sbattono, porte che cigolano) sono utilizzati come mezzo per esplicitare una metafora potentissima, traducibile nella mente distorta e completamente distrutta della protagonista, la quale sarà costretta a compiere un atto di estremo coraggio per liberarsi del suo demone e ricostruire pezzo per pezzo la sua vita.  

Un horror non classico, ma classicissimo: il rimando all’espressionismo tedesco e a Sigmund Freud è chiarissimo e mai presuntuoso. La storia, i personaggi perfettamente delineati e l’uso di una fotografia glaciale, che man mano che la vicenda prosegue perde impercettibilmente colore fino a trasformare l’intera inquadratura in un dipinto asettico e perfetto.

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Il trailer ufficiale italiano:

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