Lezioni dall’Attacco di Nizza: la sicurezza partecipata può salvare vite umane

Dalla dinamica dell’incursione in stile ‘Intifada’ si possono trarre indicazioni preziose per limitare le vittime di attacchi terroristici islamici, sia nella fase preventiva che in quella della gestione del primo soccorso

Nizza (Europa) – Meno di 24 ore fa, un immigrato tunisino residente a Nizza ha compiuto il suo atto di jihad, travolgendo con un camion centinaia di persone che assistevano ai fuochi di artificio nel luogo più iconico della Costa Azzurra, la Promenade des Anglais. Un diavolo sulla Passeggiata degli Angeli.

Al di là dell’analisi di scenario, ci sono aspetti interessanti che sia riguardano la dinamica dell’atto di guerra nono ortodossa condotto in contesto urbano sia la fase immediatamente successiva, concernente l’azione di contro-guerriglia e di assistenza sul terreno alle vittime.

La prima considerazione è di ordine generale. Deve cambiare in Europa il paradigma operativo dei posti di blocco, per consentire alle Forze dell’Ordine un intervento più incisivo nella fase preventiva di un atto terroristico. Nella fattispecie, chi non si ferma all’alt di un posto di polizia deve sapere di rischiare la vita.

Mohamed Lahouaiej Bouhlel, il trentunenne tunisino immigrato in Francia, residente a Nizza grazie al permesso di soggiorno concesso dopo il matrimonio con una donna franco-tunisina, ha potuto accedere alla zona interdetta al traffico per la pressoché totale assenza di un filtro di controllo serio da parte delle forze di polizia. Per entrare nella zona pedonale, il jihadista ha affermato di dover consegnare dei gelati ai pubblici esercizi, ma nessuno gli ha chiesto un documento di trasporto o ha controllato il contenuto del camion.

Su questo aspetto, le forze di polizia devono ricevere nuove regole di ingaggio nella gestione dei posti di blocco, con autorizzazione a sparare al ‘bersaglio grosso’ nel caso di violazioni dell’obbligo di fermarsi. Ancora, l’accesso alle zone pedonali dovrebbe essere autorizzato espressamente, con apposizione di segnalatori elettronici rfid che consentano l’individuazione immediata delle informazioni di base (origine del materiale trasportato, identità, codice alfanumerico di identificazione e autorizzazione). Naturalmente sul piano operativo le Forze di Polizia dovrebbero modificare in senso ‘combat’ l’approccio generale all’azione sul territorio, considerato lo scivolamento del terrorismo jihadista in ambito urbano.

Ne consegue che la popolazione dovrebbe essere informata e avvertita sui rischi connessi a questa elevazione della soglia di attenzione e di contrasto del jihadismo urbano, per evitare ‘incidenti’ che colpiscano civili incolpevoli e inermi.

In secondo luogo, servirebbe una razionalizzazione della gestione delle sale operative dei numeri di emergenza, per evitare che la gestione venga assunta da chi si trova lontano dall’emergenza. Chiamando il 113, il 112, il 115 o il 118, in Italia spesso risponde una centrale operativa distante. Negli ultimi due giorni, è accaduto a chi scrive per segnalare incendi e incidenti stradali. Spesso l’addetto al centralino non conosce alla perfezione il territorio di riferimento, che magari comprende zone di diverse province. Il rimedio non sarebbe difficile e può essere affrontato con due alternative modalità: la prima è preparare ad hoc il personale addetto ai centralini di emergenza (magari unificando sotto il profilo operativo le sale operative), in modo che ciascuno conosca il territorio da cui possono arrivare le chiamate; la seconda è adeguare tecnicamente i sistemi di telefonia mobile, allineandoli con quelli di rete fissa, in modo che la chiamata da un cellulare venga dirottata al centralino di emergenza più vicino, per consentire al centralinista di accorciare i tempi di attivazione dell’emergenza, grazie alla conoscenza del territorio.

Ancora, la terza misura da implementare nel breve termine è l’attivazione di una riserva selezionata allargata, con snellimento delle procedure di selezione e arruolamento, aperte ad appartenenti alle Forze dell’Ordine e alle Forze Armate in quiescenza, ma anche a professionisti di ogni settore, per rafforzare le capacità di azione delle strutture di sicurezza in situazioni di emergenza. L’appartenenza a questa rete operativa sul territorio – con o senza retribuzione, ma sicuramente con copertura assicurativa – dovrebbe ricevere uno statuto speciale misto, civile/militare. Questo personale ‘ausiliario’ dovrebbe essere distinguibile da parte della popolazione attraverso l’esibizione di una fascia o di segni di riconoscimento di veloce esposizione e dovrebbe essere dotato di arma personale corta.

Infine, ultimo punto (ma l’elenco è meramente descrittivo), occorre ampliare la capacità di intervento medico di primo soccorso tra la popolazione, per attenuare gli effetti immediati potenzialmente esiziali di un attacco terroristico. Sapere fermare un’emorragia, effettuare una manovra di BLS (Basic Life Support) e delle connesse azioni di RCP (rianimazione cardio polmonare), intervenire per bloccare un arto fratturato, può servire per salvare vite umane.

Siamo chiamati a rinnovare la patente per guidare l’automobile, ma non sappiamo come agire per aiutare gli altri (e noi stessi) in caso di un incidente. Cresce la probabilità di incontrare nel proprio percorso di vita dei jihadisti islamici come Mohamed Lahouaiej Bouhlel. Di pari passo dovrebbero crescere i mezzi per ridurre i rischi, attenuare l’impatto e gli effetti di queste azioni di guerra condotte in contesto urbano, in cui ciascuno di noi può essere vittima o attore.

(Credit photo: Reuters/Eric Gaillard/Mirror.co.uk) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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