Iran ed Egitto: prove di alleanza in primo piano
Tra primavere arabe e potenziali minacce alla stabilità del Mediterraneo Orientale
Oggi si attende inoltre che la Commissione Europea formalizzi la concessione di più tempo a Francia, Spagna e Olanda per conseguire gli obiettivi di risanamento, portando il deficit sotto il 3% del Pil. Per Parigi e Madrid si parla di due anni in più, per L’Aia potrebbero essere sufficienti solo 12 mesi.
E’ impossibile negare che l’Iran, sia pur aggravato da importanti sanzioni economiche, sancite dalla comunità internazionale, sia uno dei protagonisti della politica di un settore geostrategico di primaria importanza, in particolare per le sue relazioni con i paesi confinanti della regione, con gli Stati Uniti, l’Europa e il Medio Oriente.
Nel luglio 2012 la professoressa Roxane Farmanfarmaian, dell’Università di Cambridge, esperta analista associata anche al Middle East Center, uno dei più antichi in America, in una conferenza presso Al Jazeera Media Centre, ha con lucidità rilevato un elemento importante a questo proposito: per risolvere la questione siriana, non si può fare a meno dell’Iran. Occorre anche aggiungere che, piaccia o non, nei nuovi equilibri dell’Africa Mediterranea, Teheran sta conducendo una politica molto dinamica che ben si attaglia alle nuove tendenze del governo egiziano e di quello tunisino, dove la cosiddetta ‘primavera araba’ aveva fornito speranze alle popolazioni.
Dopo due anni dai cambiamenti epocali in Egitto e in Tunisia, non si vede ancora una stabilità che possa portare a una solida ricostruzione delle istituzioni in politica interna e a decisioni strategiche in quella estera. Il mondo occidentale, in particolare Stati Uniti e Israele, non è esente da importanti errori di comportamento negli ultimi due anni. Ha dato spazio, ha sostenuto le istanze di cambio nel nome di una democrazia prima inesistente ma allo stesso tempo a continuato a proteggere alcuni sopravvissuti dei passati regimi per cercare di mantenere qualche influenza su chi poteva ancora essere operativo nelle decisioni. Forse ha cercato di scavare un fosso tra petizioni laiche e quelle religiose, ampliando le problematiche esistenti fra i due gruppi anche con un massiccio approccio dei media e della rete, nell’ottica dell’Impero Romano del divide et impera.
In effetti, la questione esiste: gli Islamisti di Tunisia ed Egitto non sono stati in grado di controllare/soddisfare le richieste di maggiore laicismo provenienti da alcune parti della popolazione e in questo modo hanno dovuto permettere e tuttora devono permettere continue perniciose sommosse.
Da parte loro, i portatori di istanze laiche non hanno la forza di affermarsi totalmente evitando così devastanti lacerazioni interne. Le speranze della seconda importante (la prima fu contro l’Impero Ottomano) rivoluzione ‘araba’ sono state di vario tipo: alcune però sono riuscite ad avere una solida consacrazione avendo portato alla vittoria governativa istanze integraliste come in Egitto dove i Fratelli Musulmani, ad esempio, che hanno espresso la massima carica istituzionale, e il Freedom and Justice Party (FJP) hanno deciso di ‘festeggiare’ il secondo anniversario della ‘rivoluzione’ (dal 25 gennaio 2011) con un programma di lavoro sociale e filantropico e con programmi di sviluppo per l’intera area: il loro consueto iter a favore dei più svantaggiati, che ha come centro la moschea e come luce guida la ‘sharia’.
Solo uno stato ben organizzato e efficiente nei servizi di welfare alla popolazione potrebbe sfidare sul piano concreto la fattiva operosità sociale (nel più ampio significato della parola) di quel che si organizza all’ombra delle Scuole coraniche e delle moschee.
Dopo i noti avvenimenti del 1979, che videro la presenza in Egitto del deposto Shah Pahlavi con la sua fine terrena, e l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani nel 2012, i legami fra i due stati sembrano essere divenuti stretti e ancora di più potrebbero esserlo in futuro sul piano ideologico che, come dappertutto, passa anche attraverso i canali dell’import-export. Infatti, in questi giorni (18-19 febbraio 2013) è a Teheran una importante delegazione egiziana, composta da imprenditori del settore privato, per un incontro di due giorni con omologhi iraniani allo scopo di aumentare in modo significante il volume degli scambi commerciali.
Al Cairo, durante la sua visita in Egitto (la prima di un presidente iraniano dalla rivoluzione islamica) per partecipare al 12° Summit della Organization of Islamic Cooperation (OIC), agli inizi di febbraio, Ahmadinejad dichiarò che i due Paesi dovevano incrementare la loro cooperazione in tutti i settori economici ma principalmente nel commercio, turismo, formazione e tecnologia, considerato che le cifre degli scambi annuali fra Egitto e Iran si aggirano attualmente intorno 331 milioni di dollari, cifra considerata ‘modesta’ rispetto alle potenzialità commerciali che possono esprimere i due territori.
Nel discorso di apertura nella Conferenza della cooperazione tra Iran e Eurasia (aperta il 18 febbraio 2013, alla quale partecipavano, tra gli altri, rappresentanti della Russia, Kazakistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan Cina, India e…Germania), il ministro degli esteri di Teheran, Alì Akbar Salehi ha dichiarato di ritenere che il settore euroasiatico con il suo vasto potenziale sia uno dei motori della crescita economica mondiale e qualsiasi suo sviluppo influenza il sistema internazionale. Ha riconosciuto che però l’Eurasia sta combattendo problemi di non facile soluzione, come il terrorismo, l’estremismo, il fatturato illegale della droga, il sottosviluppo economico e politico, i conflitti etnici e di confine, i problemi legati all’inquinamento dell’ambiente, i forti disaccordi politici che creano problemi alla stabilità e sicurezza internazionale della regione in primo luogo con evidenti ripercussioni sulla stabilità globale, considerata l’importanza del settore geopolitico di cui si tratta.
Sembra, dunque, che le relazioni fra Egitto e Iran siano riprese in modo molto concreto e duraturo, ma ci sono delle criticità. Nel passato era ben noto come il regime di Hosni Mubarak e quello di Sadat non fossero in sintonia con la repubblica islamica iraniana tanto da cercare di minarne la stabilità. Mubarak fu uno dei più forti sostenitori di Saddam Hussein nella guerra Iran-Irak ed è stato un alleato ‘fedele’ degli Stati Uniti. La caduta di Mubarak e l’ascesa di un regime fortemente orientato verso l’Islam non poteva che colmare la breccia trentennale tra i due Stati, ognuno dei quali è una presenza pilota nella regione. Rimane un grave problema, però, il rapporto tra Shia (l’Iran è a quasi totalità sciita, al contrario dell’Egitto) e Sunna che si è evidenziato durante la visita di Ahmadinejad alla Moschea di Al-Azhar dove il potente suo Grande Imam, Sheik Ahmed Al-Tayeb, ha riservato una certa freddezza all’ospite (ricevuto invece con il tappeto rosso all’aeroporto del Cairo dalle autorità civili), inviando poi alla conferenza stampa congiunta un suo collaboratore e non presenziando al suo svolgimento: anzi il suo portavoce ha apertamente criticato la politica iraniana nel Golfo contro i Sunniti e gli Arabi iraniani del Khuzestan. La questione non è da sottovalutare, ricordando però che, nella storia, sciiti e sunniti si sono sempre alleati quando si è trattato di combattere gli ‘infedeli’, su tutti i fronti, per poi tornare alla lotta interna.
Stranamente Ahmadinejad non ha reagito bruscamente alla plateale interferenza dell’Autorità sunnita nella sua politica interna, dimostrando così di tenere molto a ristabilire legami diplomatici ed economici con il Cairo, forse anche per cercare di attrarre nella sua orbita di comportamento l’Egitto nei riguardi della questione siriana, verso la quale i due Paesi hanno avuto finora delle politiche diametralmente opposte. L’Iran è uno degli attori protagonisti nella soluzione del problema Bashir Al-Asad. Può inoltre temere che la rapida ascesa anche di gruppi Salafiti e Wahabiti in Egitto possa vanificare i suoi sforzi di mantenersi paese egemone nel Golfo.
Personalmente credo poco a un asse duraturo tra Egitto e Iran ma se le massime Autorità religiose dei due Stati lo accettassero e lo benedicessero, allora l’alleanza potrebbe divenire solida, minando la posizione degli Stato del Golfo e della stessa Arabia Saudita.
La posta in gioco è alta, come sempre è stato in questa regione geostrategica da quando fu scoperta la valenza del petrolio. La situazione è molto fluida almeno fino a quando Egitto e Tunisia non troveranno la stabilità interna, qualsiasi orientamento i loro governi adottino. Attendiamo
Articolo originariamente pubblicato su http://www.osservatorioanalitico.com/?p=1929
© RIPRODUZIONE RISERVATA