Quando muore un pilota…

Contro l’automobilismo – e il motorsport in generale – si sollevano i peana contrari ogni volta che uno di noi (innamorati di auto e di corse) perde la vita nell’esercizio della propria passione. Per Allan Simonsen è accaduta la stessa processione di banalità…

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Allan Simonsen (5 Luglio 1978 – 22 Giugno 2013)

L’edizione 2013 della 24 Ore di Le Mans è stata coperta da un velo di tristezza, per la morte di Allan Simonsen, a seguito di un incidente avvenuto all’inizio del terzo giro. Così, come di solito avviene, si è subito scatenato il coro di chi-ne-sa-di-più, di chi ha la lucida visione della verità, di chi mette l’Uomo davanti a tutto e non i luridi-interessi-commerciali-degli-sponsor, di chi è contro una inumana-scelta-di-correre-sempre-e-comunque.

E via a ricordare, distinguere, spaccare il capello in quattro, vivisezionare le virgole, dare lezioni di morale, ma spesso – non sempre – con un vulnus di fondo: sapere poco di automobili, automobilismo, motorsport. Costoro spesso parlano di corse in automobili con sprezzo del ridicolo, perché l’oggetto a quattro ruote più pericoloso condotto nella loro vita è forse un carrello della spesa, in giornata di saldi, quando impostare le curve tra gli scaffali degli impermercati o azzeccare l’ingresso “in pista” al momento giusto può far guadagnare punti al proprio bilancio familiare o può gonfiare d’orgoglio l’ego risparmioso. Per carità, legittimo, super-legittimo, soprattutto in tempi di vacche magre come gli attuali, quando scoprire che le stesse merendine, prodotte dallo stesso stabilimento costano il 40% in più se recano il brand-famoso ti fa distinguere tra intelligenza e stupidità. E chissene…del brand famoso (salvo poi a ragionare sul fatto che magari il brand famoso magari alimenta una filiera i cui effetti ricadono su molti: anche su chi scrive o pubblica, per dire…).

2013-24-Heures-du-Mans-2013-02513802-1575_JPG_hd_780x480Non cadrò nel tranello di entrare in polemica con alcuno, perché non ho verità: ho solo opinioni. Rivendico solo un attimo di attenzione per dire ai quattro affezionati lettori che ci seguono la mia opinione, su almeno due questioni: il ritardo con cui è stata data ai media la notizia della morte di Simonsen; l’opportunità di fermare la corsa; la congruità del paragone con altri eventi analoghi: soprattutto la morte di Dan Weldon sul triovale di Las Vegas il 16 ottobre del 2011.

Sulla gestione della comunicazione inerente la morte di Simonsen, qualcuno ha parlato di “troppo silenzio”, di gestione opaca della notizia. Altri, molto correttamente, hanno rilevato come il ritardo sia stato motivato dal fatto che David Richards – uno che ne ha viste di tutti i colori nella sua vita professionale nel motorsport – si è preoccupato di informare prima la famiglia, per evitare che apprendesse della morte del povero pilota danese dalla televisione. I polemisti un-tanto-al-chilo sono troppo abituati ai vergognosi usi di molti media italiani, i cui reporter sono sempre pronti a porre domande assurde, magari alla mamma di una bimba massacrata dal bastardo-di-turno: “signora, che prova in questo momento?”. Che può provare una mamma che vede la bara di sua figlia, assassinata da un essere immondo?

Ecco, questi signori dell’informazione avrebbero preferito che ad avvertire la compagna di Simonsen fosse stata la televisione o un importuno cronista. Noi difendiamo la scelta di David Richards e dell’ACO (Automobil Club de l’Ouest). Bravi, nella tragicità del momento.

Sull’opportunità di interrompere la corsa e sul paragone con la morte di un calciatore in campo (Morosini, per esempio), credo si debba fare una riflessione. Sui circuiti inglesi spesso si legge un cartello recante il comandamento numero 1 degli sport motoristici: “motorsport is dangerous”. È un monito a chi guarda, più che a chi esercita, perché chi corre sa che correre in macchina (o in moto: diremmo anche in bicicletta…) è pericoloso, ma non serve a smettere, semmai è un avviso a fare attenzione e a non lasciare nulla di intentato perché nessuno ci rimetta la pelle.

Racconto un aneddoto. Nel settembre del 2010 chi partecipò alla 6 Ore di Spa-Francorchamps del campionato VW Fun Cup, con l’amico Stefano Stefanelli, attualmente tra i protagonisti della Ginetta Cup. La Fun Cup è un trabiccolo, un prototipo con telaio tubolare, senza servoassistenze (servofreno, servosterzo), una macchinetta da corsa con la carrozzeria avente la forma del mitico “Maggiolino” della casa di Wolfsburg. Divertente e faticosa. Man mano che si corre diventa sempre più divertente, sempre meno faticosa. Ma non si raggiungono velocità folli con 170 cavallini diesel turboprodotti, per un peso complessivo di oltre 900 chilogrammi (pilota compreso). Ci si diverte e basta, al limite si può rimanere “feriti nel portafoglio”.

Tom Kristensen, tra Allan McNish e Loïc Duval, dedica la nona vittora a Le Mans al connazionale morto sabato pomeriggio
Tom Kristensen, tra Allan McNish e Loïc Duval, dedica la nona vittora a Le Mans al connazionale morto sabato pomeriggio

Poco prima di salire in macchina per il mio turno di guida, cominciò a piovere. E al secondo giro del mio primo stint, venne giù qualcosa di simile al diluvio universale. Il ritmo rallentò, per cui il lungo rettilineo del Kemmel (in leggera salita) che porta alla variante di Les Combes si percorre in un tempo più lungo. Mia moglie attendeva la nostra prima figlia e così a un certo punto mi riflettei – in una sessione di multitasking motoristico-meteorologico – all’uscita dell’Eau Rouge (a circa 170 chilometri orari: in autostrada spesso si va più veloci…): “ma che ci sto a fare qui”. Non avevo finito di pensarlo, che già mi infilavo tra due “colleghi” che si prendevano a sportellate alla frenata di Les Combes, infilzandoli come due polli. Sulla discesa che porta alla double gauche di Pouhon mi diedi la risposta: “ecco che ci sto a fare: il divertimento, l’ebrezza che ti dà l’adrenalina in corpo, il piacere di fare quello che – se avessi potuto scegliere – avresti eletto a professione di vita”. Fui cauto, ma secondo l’amico Stefano Stefanelli ero tra i più veloci sotto l’acqua, opinione che ho sempre ritenuto una graziosa esagerazione meritata più per qualche battuta azzeccata, che per qualche tempo staccato. Un toscano apprezza sempre la verve della parola.

La passione per la velocità, per le automobili, per i motori, smuove chi ce l’ha, produce terribili interrogativi in chi non è colpito dalla “malattia”. Che sia malattia è indubbio. Forse che scalare le montagne e precipitare dai costoni dello Stelvio non è insensatezza pura? Anche gli alpinisti sono mossi dalla passione e quando capita l’incidente tragico si deve solo recitare una preghiera (per chi crede è sempre un obolo in corso di validità, scambiabile al portatore allo sportello della magnanimità del Signore) e avere rispetto.

La 24 Ore di Le Mans non è una gara di Fun Cup (con tutto il rispetto…), ma un evento imprenditoriale, commerciale infine anche sportivo. Dove impegni finanziari, lavoro di una moltitudine di persone e passione per le corse si intrecciano in un groviglio inestricabile che frutta spettacolo, esperienze tecniche, amicizie e rispetto.

Non fermare la gara è stata la decisione giusta, a mio avviso, ma non tanto perché Simonsen avrebbe voluto così: se avesse potuto scegliere, Allan Simonsen non avrebbe certo scelto di andarsi a spiaccicare sul guardrail esterno della Tetre Rouge. La corsa non andava fermata perché la vita non si può fermare e neanche la morte. La vita va rispettata, così come va rispettata la morte.

Domenica mattina, a circa cinque ore dalla bandiera a scacchi, Frédérick Makowiecki ha avuto un incidente simile a quello che ha ucciso Allan Simonsen, con una Aston Martin Vantage uguale, ma è uscito dalla macchina distrutta con le proprie gambe. Allora forse si può dire che sabato pomeriggio per il pilota danese era arrivata semplicemente la sua ora, nel disegno imperscrutabile di Colui Che Tutto Muove (sempre per chi ha fede).

L’incidente di Frédéric Makowiecki domenica mattina dopo la prima chicane sul rettilineo di Hunaudières

Continuare la corsa ha onorato il pubblico e tutti coloro che in quel momento lavoravano: meccanici, commissari e tecnici di pista, personale di soccorso, medici e paramedici, infine piloti. Continuare la corsa ha significato onorare gli investimenti industriali, di comunicazione, di pubblicità, di spettacolo (si pensi a chi si è mosso da località lontanissime per vivere la magica atmosfera di Le Mans, investendo risparmi che si sarebbero dissolti…) connessi all’evento: il valore di tutti questi “capitoli del bilancio” non potrà mai eguagliare una vita umana, ovvio. Ma quelle attività sono connesse a migliaia di vite, che dipendono dall’esito – positivo e o meno che sia – da una corsa di macchine che dura 24 Ore in pista, ma spesso un anno fuori dal tracciato. Molte vite hanno onorato una morte, prematura, dolorosa, che ci ha tolto il fiato.

Infine, secondo me è ingiusto il paragone tra l’incidente di Simonsen e quello in cui, il 16 ottobre 2011, rimase ucciso il pilota britannico Dan Wheldon sul triovale di Las Vegas. Dopo il crash, i piloti decisero di interrompere l’evento, sfilando poi per cinque giri in onore del pilota, una volta appreso del decesso. La pista di Las Vegas fu ritenuta pericolosa, perché troppo corta per far correre 34 monoposto di IndyCar, molti colleghi di Wheldon sollevarono la voce e i dirigenti del circuito furono nell’occhio del ciclone per settimane. Inoltre, uno dei motivi che spinse a fermare lo “show” fu, con buona probabilità, la dinamica che aveva portato il pilota britannico a correre nell’ultima gara di campionato: una scommessa eccezionale, in virtù della quale se avesse vinto – partendo dall’ultimo posto – si sarebbe aggiudicato la cifra impressionante di 5 milioni di dollari, da dividere con uno degli spettatori, estratto a sorte. I piloti dissero “basta” a questo “gioco d’azzardo” amorale.

Sabato pomeriggio a Le Mans Allan Simonsen ha lasciato la propria vita, onorando la sua passione per l’automobilismo e la sua famiglia ha voluto rispettare il lavoro di tanti e la passione di migliaia di persone, con grande dignità e un amore straordinario. Quello che sentiamo di dover trasmettere ai Simonsen, con grande e riconoscente affetto per un comportamento “vichingo” ed esemplare. Ad Allan, un grande “arrivederci” (più tardi possibile…). Ciao Allan, Race In Peace.

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John Horsemoon

Sono uno pseudonimo e seguo sempre il mio dominus, del quale ho tutti i pregi e i difetti. Sportivo e non tifoso, pilota praticante(si fa per dire...), sempre osservante del codice: i maligni e i detrattori sostengono che sono un “dissidente” sui limiti di velocità. Una volta lo ero, oggi non più. Correre in gara dà sensazioni meravigliose, farlo su strada aperta alla circolazione è al contrario una plateale testimonianza di imbecillità. Sul “mio” giornale scrivo di sport in generale, di automobilismo e di motorsport, ma in fondo continuo a giocare anche io con le macchinine come un bambino.