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Contro l’abolizione delle province (così come viene proposta)

Dopo la bocciatura del “metodo Monti”, il presidente del Consiglio Letta ha varato il disegno di legge costituzionale che risponde ai rilievi della Corte Costituzionale, ma il metodo crea un precedente pericoloso. Le regioni vero pozzo senza fondo di sperperi (perché aggregatrici di cordate clientelari)

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Il 3 luglio scorso, la Corte Costituzionale ha bocciato con clamore – ma non in modo inatteso – l’abolizione delle province effettuata con il decreto “salva Italia” dal governo Monti, a seguito dei ricorsi presentanti dalle Regioni. Sotto la lente della Consulta anche il decreto 95 del 2012, teso a riordinare le province italiane su criteri legati alla densità della popolazione e all’estensione territoriale, verso cui si erano opposte le autonomie locali.

Il nocciolo della questione rilevata dalla Consulta ha riguardato la forma con cui questa abolizione fu avviata, un decreto legge, ossia uno strumento legislativo emergenziale, non uno strumento ordinario e, soprattutto, di livello costituzionale, visto che l’articolazione della Repubblica decentrata è statuita da un esplicito articolo della Carta fondamentale, l’articolo 114.

A questa bocciatura, il presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta ha risposto venerdì con un disegno di legge costituzionale del governo, volto ad abrogare il termine “province dagli articoli della Costituzione in cui è menzionato, come mossa per quietare l’opinione pubblica in cui il tema dell’abolizione delle province ha prodotto «un atteggiamento di sfiducia perché si è annunciato troppe volte questo principio».

Italian_regions_provinces.svgLa modifica degli enti locali – perché di questo si tratta – viene realizzata attraverso la cancellazione di un sostantivo – “province” – ma non tocca la sostanza dell’ente (personale e funzioni), vista l’intenzione di «salvaguardare i lavoratori» e «le funzioni» degli enti abrogati.

Questo significa che il governo Letta si fa promotore di quel tipo di populismo dall’alto citato da Giovanni Belardelli sul “Corriere della Sera” di sabato 6 luglio, a proposito del “governo dei tecnici”, ma adatto a delineare la tendenza anche di quello politico delle “larghe intese” presieduto da Enrico Letta.

Questo metodo populista dall’alto per quietare il populismo dal basso è sbagliato per alcuni motivi.

Anzitutto, perché l’articolazione degli enti locali iscritta nella Costituzione – sia nello stringato testo originario che in quello più articolato novato con l’art. 1 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – raccoglieva in sede di Assemblea Costituente un dato storico, politico e istituzionale dello Stato fin dall’Unità, l’esistenza dell’ente locale provinciale.

In secondo luogo, questa previsione costituzionale da parte dei Padri Costituenti si inserì in un quadro più ampio di democratizzazione delle istituzioni e della società italiana, dopo il Ventennio fascista, per consentire a tutti i cittadini di partecipare alla gestione del Paese a ogni livello di governo.

In terzo luogo, l’abrogazione “semantica” del sostantivo province è un metodo pericoloso, perché potrebbe essere utilizzato in futuro come espediente per riformare altre parti della Carta con un’operazione surrettizia, magari a colpi di maggioranza risicata. È già avvenuto per la scelerata riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001.

Infine, l’abolizione delle province – come atto singolo di riforma costituzionale realizzata per “vie traverse” – è un atto di incosciente sbilanciamento dei poteri e una diversione dell’organizzazione delle autonomie locali dello Stato. È come se in una vettura di Formula 1 si sostituissero i dischi dei freni con un tipo più leggero, per recuperare un peso eccedente dell’intera vettura. In un primo momento, la macchina andrebbe subito a una velocità più sostenuta, ma sarebbe destinata a sbattere miseramente alla prima curva impegnativa, perché i freni non reggerebbero il peso complessivo e l’energia prodotta.

Insomma, sotto il profilo giuridico, non si possono riformare le province, se non si mette mano alla riforma complessiva dello Stato italiano, che va rivisto nella effettiva capacità di produrre decisioni, in modo veloce, responsabile e controllato, ma non ostaggio dei veti, delle trappole, dei ricatti, del mercanteggiamento clientelare. E questa operazione di riforma generale non può farla un’assemblea parlamentare ordinaria, ma un organo eletto ad hoc dal popolo sovrano.

Sotto il profilo storico, invece, si deve valutare che l’innalzamento del debito pubblico italiano comincia il proprio moto inarrestabile al tempo dell’esordio delle Regioni – nel 1970 – ossia di organismi che copiavano lo Stato in sedicesimi e a cui si trasferirono – a volte in toto, a volte in via duplicata – alcune funzioni amministrative, ma mai nel pieno senso dell’applicazione del principio di sussidiarietà. Si trattò piuttosto di un funzionamento sussidiario nell’accensione della catena clientelare, che è ancora la prima e vera fonte di sperpero del denaro pubblico.

Se dunque si vuole davvero riformare il Paese, non lo si faccia con l’abrogazione dei sostantivi, ma con un organo specifico, che può essere chiamato Assemblea Costituente, Convenzione Costituzionale, Commissione Costituzionale: se non è zuppa, è pan bagnato!

La popolazione è stanca sia della dilapidazione sistematica di pubbliche risorse, sia dell’inconcludenza della classe politica. Avviare una riforma di facciata, che scombussola il sistema costituzionale italiano solo in modo formale, ma ne salvaguarda la sostanza, è una forma di onanismo politico e istituzionale che l’Italia non si può più permettere.

Si tagliassero dai bilanci delle province le doppie o triple indennità, le spese per viaggi di rappresentanza senza senso (ossia non connesse con l’effettiva specifica competenza di governo), le indennità di commissione, le auto di ogni colore che portano a spasso funzionari e politici. Si ancorassero tagli allo stipendio dei funzionari delle amministrazioni provinciali alle segnalazione provate di abusi di burocrazia. E incentivi e aumenti alla produttività burocratica.

Al contrario, tagliare la definizione di “provincia” dalla Costituzione non inserendo il provvedimento in una revisione complessiva della macchina statale, produrrà l’ebrezza momentanea della velocità, in modo analogo a quanto avviene ai ragazzi che – dopo aver abusato di alcol e droghe – si mettono al volante con il senso del pieno controllo. Purtroppo sappiamo che l’impatto violento è spesso inevitabile: lo stesso accadrà per le istituzioni repubblicane modificate dai populisti dall’alto per quietare i populisti (spesso eteroguidati) dal basso.

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