Esteri

Egitto e Tunisia legate da un comune orizzonte: la libertà

Il Primo ministro Hazem al-Beblawi alla Fratellanza: “Tornate ai vostri lavori e alle vostre case, il sit-in sarà disperso”, ma i Fratelli Musulmani rispondono “picche”. A Tunisi Rached Gannouchi blocca l’Assemblea Costituente e cede alla piazza contro la violenza islamista: si apre il dialogo. I Paesi occidentali in piena confusione

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Il Cairo e Tunisi sono due fronti della libertà nel Mediterraneo meridionale, il primo a Oriente, il secondo a Occidente. Sembrano due torri di guardia, sono due passaggi obbligati per un futuro sostenibile per le giovani popolazioni egiziane e tunisine, potenziali esempi per l’apertura a regimi liberali in Libia e nella Striscia di Gaza.

Tamarod in Egitto ha spinto l’esercito all’intervento per evitare la guerra civile, non per iniziarla: i “Fratelli Musulmani”, con il deposto presidente Mohamed Morsi, avevano iniziato una islamizzazione forzata della società e dell’ordinamento giuridico, sulla via dell’affermazione della Sharia come legge fondamentale del Paese.

In Tunisia, all’indomani dell’assassinio politico di Mohammed Brahmi, la popolazione è scesa in piazza, scontrandosi con i sostenitori di Al-Nahda (Movimento della Rinascita), la branca tunisina della Fratellanza. Non a caso, gli slogan lanciati a Tunisi e Sidi Bouzid sono stati uguali a quelli uditi al Cairo e ad Alessandria d’Egitto: libertà. «La Tunisia è libera, via i Fratelli!» hanno urlato i manifestanti. «Questo è un complotto ai danni del Paese – ha dichiarato un altro manifestante citato da AsiaNews, l’agenzia di stampa cattolica molto attiva nel Vicino, Medio e Estremo Oriente. «Il governo è responsabile per non aver vigilato abbastanza» hanno affermato in coro i giovani contro Al-Nahda, il partito al potere, accusato dalla famiglia di Brahmi di essere dietr20130809-mohamed-brahmi_300x178-dido all’omicidio.

L’evoluzione del “pronunciamento militare” a sostegno di Tamarod in Egitto ha portato alla destituzione di Mohamed Morsi, poi incriminato anche per spionaggio a favore di Hamas, la branca politica della Fratellanza al potere nella Striscia di Gaza.

Ieri, il primo ministro Hazem al-Beblawi ha detto parole pesanti e chiare, verso i presidi dei manifestanti pro-Morsi, sulla base di quei “negoziati” incoraggiati in modo incosciente (o molto cosciente…) da Europa e Stati Uniti: «La decisione di porre fine ai sit-in di Rabaa Adawiya e Nahda è definitiva». Parole cui hanno fatto eco quelle rilasciate dalla presidenza provvisoria di Adly Mansour: «La fase del dialogo diplomatico termina qui riteniamo i Fratelli musulmani responsabili dell’esito negativo delle trattative e dei recenti episodi violenti». Anche queste parole negative, che dovrebbero essere interpretate – in senso diplomatico – come una parziale apertura a trovare una soluzione giuridica per superare i crimini commessi durante gli ultimi due mesi (prima e dopo la destituzione di Morsi), apertura fallita per l’intransigenza dei Fratelli Musulmani.

Oltre 250 persone sono morte negli scontri seguiti alla deposizione di Mohamed Morsi lo scorso 3 luglio. Nell’arco dell’ultimo mese, manifestazioni e sit-in, contro e a favore del presidente destituito, hanno trascinato il Cairo e l’Egitto in un clima di grande instabilità politica. La Fratellanza esige il rilascio e il ritorno al governo del proprio leader, almeno 20 milioni di egiziani, supportati dalle Forze armate, sostengono il governo provvisorio nella transizione a nuove elezioni.

Il deputato statunitense William Burns e il diplomatico dell’Unione europea, Bernardino Leon, hanno lasciato ieri il Cairo dopo aver fallito nella mediazione tra le parti politiche. La delegazione, che ha tentato nelle ultime settimane di incoraggiare il dialogo tra esercito e Fratellanza, ha manifestato la propria preoccupazione per il «pericoloso stallo politico» in cui versa il Paese. Mohammed Morsi rimane in custodia dell’esercito, a dispetto dei numerosi inviti al suo rilascio da parte della comunità internazionale, mentre il 25 agosto inizierà il processo di Mohammed Badie, capo supremo del partito accusato d’istigazione alla violenza.

Dopo le stragi del 27 luglio, quando almeno 80 manifestanti hanno perso la vita in circostanze incerte, l’ipotesi di uno sgombero dei presidi della Fratellanza nelle aree di Rabaa Adawiya e Nahda infonde in alcuni ambienti internazionali forte preoccupazione per la stabilità del Paese.

Al perentorio “invito” del Primo Ministro ha risposto la Fratellanza, che ha ribadito la richiesta di liberazione di Mohamed Morsi e di un suo ritorno al potere. Un obiettivo politico irrealistico e una barricata ideologica, che giustifica il protrarsi delle violenze nel Paese. In Sinai continuano gli attacchi alle forze militari e ai cittadini inermi, contrari alla Fratellanza. Un modo “originale” di intendere la democrazia: per se, ma non per gli altri.

Intanto in Tunisia il partito islamico Al-Nahda, al governo dal 2011, ha ceduto alla pressione dei manifestanti, da giorni impegnati in proteste rumorose, che hanno assunto anche la forza violenta in alcne circostanze. Queste proteste sono partite dopo l’assassinio di Mohammed Brahmi, il deputato dell’opposizione caduto in un agguato lo scorso 25 luglio.

20130809-tunisia-proteste-giovani-450x286-didLe manifestazioni raccolgono tutte le fasce sociali che rifiutano la violenza e la svolta islamista. La sede del partito guidato da Rached Gannouchi è stata incendiata a Mahdia lo scorso 1° Agosto. Ieri, in un tentativo di raffreddare la tensione, il presidente tunisino Moncef Marzouki ha concesso la grazia a 343 detenuti in occasione dell’Eid al-Fitr, la festa che segna la fine del mese sacro di Ramadan. Fonti presidenziali hanno precisato che nessuno dei graziati è accusato di terrorismo e che la decisione del presidente è stata concordata con il ministro della Giustizia Nadhir Ben Ammou, di concerto con il capo dell’amministrazione penitenziaria Habib as-Subu.

La Tunisia è un Paese cruciale per la stabilità nel Mediterraneo e il popolo tunisino è immerso in una transizione democratica densa di opportunità e sfide per l’Italia. Di recente, una testimonianza significativa è giunta da padre Jawad Alamat, responsabile delle Pontificie opere missionarie in Tunisia. Intervistato da AsiaNews, padre Alamat ha affermato che «i tunisini sono un popolo di ponti, aperture e turismo, il ricorso alla violenza non ci appartiene». Commentando l’assassinio di Brahmi – che ha rotto ogni attendismo delle forze democratiche tunisine – padre Alamat ha aggiunto che «episodi come questo sono il sintomo di stanchezza e incertezza diffuse; il popolo intero, sia di destra che di sinistra, ha bisogno di stabilità».

In questo scenario, il capo di Al-Nahda, Rached Gannouchi, ha annunciato ieri che sospenderà il lavoro dell’Assemblea costituente e accetterà il dialogo. A Tunisi queste ore saranno cruciali per il futuro della nazione, con effetti a ventaglio nel Mediterraneo Occidentale. Una situazione seguita dai governi europei con grande discrezione, ma anche con grande attenzione.

Ultimo aggiornamento 9 Agosto 2013, ore 10.51 | © RIPRODUZIONE RISERVATA