La Quarta Guerra Mondiale, la prima guerra “lobale”, internazionale e transnazionale della Storia (6)
Sesta parte dell’analisi geopolitica sul conflitto avviato simbolicamente l’11 Settembre 2001. 3. Il “Lobalismo”. 4. Le riforme imposte dal nuovo scenario “lobale”: 4.1 Nazioni Unite; 4.2 Unione Europea. L’articolo riporta il contenuto di un paper (La IV Guerra Mondiale, la I Guerra “lobale”), oggetto di discussione in un Master per Esperti della Cooperazione e della Sicurezza Internazionale seguito nel 2001-2002, la cui fondatezza è a nostro avviso ancora valida. Il 18 agosto scorso, Papa Francesco ha parlato di Terza Guerra Mondiale. Vi spieghiamo perché siamo alla Quarta e perché è difficile capire che questo terrorismo islamista è una “nuova guerra”, transnazionale e internazionale, la prima della Storia, Iniziata almeno con le “Lettere Ladenesi”, la “Dichiarazione di Guerra” di Osama bin Laden agli Stati Uniti e all’Occidente, emessa giusto 21 anni fa. Un tema che abbiamo trattato nel paper di un master seguito nel 2003, la cui fondatezza è a nostro avviso ancora valida
(continua)
Nota interpretativa: con il presente articolo si esaurisce la pubblicazione riportante l’originario contenuto della tesi di master discussa dall’autore nel 2003. Il successivo articolo conterrà un’analisi aggiornata sulla realtà contemporanea.
3. Il “lobalismo”
Nella prospettiva della Quarta Guerra Mondiale che noi proponiamo, il primo elemento di comprensione è la natura dello scontro e la necessità di ristabilire – sotto il profilo giuridico e politico – quella simmetria caduta insieme alle Twin Towers del World Trade Center.
È stato detto che Al-Qaeda è un prodotto della globalizzazione. In qualche modo è vero, ma noi suggeriamo una prospettiva più precisa. Noi proponiamo un nuovo concetto e pensiamo che la rete jihadista di Osama bin Laden sia un fenomeno sorto per effetto della lobalizzazione.
Urge dunque definire cosa sia la lobalizzazione e il lobalismo.
Il lobalismo è la modalità di interpretare un fenomeno globale da parte di un organismo, un ente, un gruppo sociale o di individui che pretendano di imporre a una dimensione più estesa un punto di vista del tutto limitato, secondo una visione ristretta sia nella elaborazione concettuale che nel retroterra culturale su cui si costruisce tale interpretazione.
È lobalista – solo per fare qualche esempio – un movimento che rivendichi l’indipendenza di un territorio (regione, gruppo di regioni, enti territoriali o comunità) facendo leva su alcune caratteristiche o alcune qualità socio-economiche di quel dato territorio, non considerando la realtà contemporanea e le interconnessioni con dimensioni più estese come quella nazionale o sovranazionale, anche in termini di capacità e necessità più ampie (difesa e sicurezza, diplomazia, ruolo nella comunità internazionale).
Il lobalismo è dunque limitatezza di visione, auto-referenzialità, pretesa di imporre agli altri principi limitati, fenomeni spesso associati con la violenza.
Si è lobali e lobalisti se si pensa in modo globale, agendo con uno sguardo limitato.
Un fenomeno limitato a una setta religiosa come quella wahabita – per anni confinata nella penisola arabica – diventa globale e può pretendere di imporre la propria visione al mondo solo grazie alle possibilità offerte dalla globalizzazione e alle capacità finanziarie del un rampollo di una famiglia di imprenditori che lo ha allevato con agi inimmaginabili per i suoi avi.
In questi termini, l’analisi storica comparativa ci fornisce una possibilità di delineare il fenomeno come noto: se Giovanni Calvino (Jean Cauven) avesse avuto la capacità finanziaria di Osama bin Laden e metà della tecnologia (militare) disponibile al co-fondatore di Al-Qaeda al-Sulbah, probabilmente non ci sarebbe una chiesa cattolica (come edificio di culto) in piedi e il patrimonio artistico cristiano e occidentale sarebbe stato distrutto.
Il calvinismo – e ne abbiamo una rappresentazione concreta in epoca contemporanea, con la branca luterana tedesca che impone un modo di governare al resto dell’Europa – sarebbe stato distruttivo come (se non peggiore) il jihadismo di matrice wahabita.
Dunque, accettando il concetto di lobalismo come retroterra interpretativo dei fenomeni jihadisti contemporanei, un’organizzazione privata ha intrapreso un’azione mirante a “farsi” Stato e questo “stato” ha alcune caratteristiche che lo rendono geneticamente nemico di tutti: o meglio, nemico di tutti quegli Stati, soggetti della comunità internazionale, che non intendono piegarsi alla sharia, la legge islamica considerata fonte unica del diritto.
E se Dio, attraverso il suo profeta Mohammed, ha dettato il Corano, diventa del tutto evidente che l’assolutezza delle prescrizioni si scontra – è destinata a scontrarsi – con il “diritto positivo” espresso dall’uomo.
Se ne deduce che l’islamismo jihadista di Bin Laden & Soci è una forma di totalitarismo imperialista, più pericoloso di nazismo e comunismo (la soglia si è alzata) perché la base normativa e prescrittiva viene da Dio e non dall’elaborazione umana. Naturalmente, questo totalitarismo non può che avere una visione universale: va imposto a tutti, costi quel che costi.
Salta perciò uno dei presupposti dei paradigmi delle relazioni internazionali: il “califfato” in via di costituzione non è un attore razionale della politica internazionale, è un attore assoluto e assolutista che non ammette chances alternative: o lo si sconfigge o si è sconfitti. Terzium non datur.
Cambiamo dunque i confini della questione, nei termini della rappresentazione di spazi liberi occupati da fenomeni transnazionali grazie all’era di “pace” apertasi con la caduta del muro di Berlino. Un evento traumatico sotto il profilo geopolitico, denso di aspettative, ma rivelatosi come un Vaso di Pandora dei nuovi demoni.
Il sistema globale è diventato sistema lobale, con alcuni soggetti operanti in piena legittimità e responsabilità (gli Stati, le unioni di Stati e le organizzazioni internazionali), mentre altri soggetti si sono affacciati sulla scena con un retroterra settario e totale assenza di responsabilità politica (almeno con i paradigmi delle relazioni internazionali precedenti): chi risponde per le azioni dei terroristi? E le azioni terroristiche – che diventano belliche ipso facto per espressa volontà di chi le commette – con quale legittimità democratica sono assunte?
Per superare il pericolo di un nuovo Medioevo, si renderà necessario impostare una strategia di lungo periodo e multilaterale, con cui costruire i prodromi di un nuovo ordine mondiale.
Una strada irta di difficoltà, perché le culture di governo, latu sensu, sono ancora orientate idealmente a paradigmi classici delle relazioni internazionali, mentre sarebbe utile assumere la visione che Ian Fleming ha dato alla sua spia letteraria, James Bond. Una visione che implica collaborazione tra Stati contro le “spectre” potenziali: ieri i trafficanti di droga, oggi quelli di organi, i salafiti o l’esercito guerrigliero del Califfato islamico prossimo venturo, che combatte senza insegne e senza divise. Difficile da riconoscere, perché opera in casa nostra, con modalità che renderebbero disonorevole ogni militare.
Serve una globale coalizione di volenterosi (coalition of willings) e una coalizione di pensatori (coalition of thinkers), visto che finora (a undici anni dalla redazione originale di questo scritto, ndr) non si vede una personalità di governo Occidentale capace di riconoscere la natura del problema: il jihad islamista ha dichiarato guerra all’Occidente e al mondo intero. Problema noto e riconosciuto perfino in seno ai Paesi musulmani moderati, che hanno patito i costi più pesanti, in coerenza con la natura interna del conflitto.
4. Le riforme imposte dal nuovo scenario “lobale”
La “nuova guerra” impone alcune riforme per un nuovo ordine mondiale. Ma come ogni attività complessa, il processo di riforma delle istituzioni internazionali è lento, perché si confronta con un dato incontrovertibile: la comunità internazionale degli Stati affronta problemi nuovi con paradigmi interpretativi vecchi.
Ancora oggi (perfino nel 2014, ndr) si continua a qualificare come “terrorismo” un fenomeno che è invece “bellico” e tra i due fenomeni ci sarebbe una differenza importante.
Il terrorismo è stato sempre un problema affrontato dagli organi di polizia, ossia una questione di law enforcement.
La guerra è invece da sempre un problema militare, che investe la sovranità degli Stati e che ha sempre avuto per protagonisti organismi statuali.
Oggi non è più così da una parte – quella del jihadismo neo-califfale – mentre rimane in bilico una interpretazione inadatta da parte degli Stati occidentali, che affrontano al questione con mezzi ordinari e non con la mobilitazione generale che necessiterebbe una minaccia alla libertà così radicata.
Dunque, nella nostra prospettiva europea, sono necessarie alcune riforme delle organizzazioni internazionali in cui si svolge la maggior parte della vita di relazione globale degli Stati. In particolare, a nostro avviso, servirebbe riformare le Nazioni Unite e l’Unione Europea. Di seguito indicheremo in estrema sintesi come.
4.1 Le Nazioni Unite
Gli Stati Uniti sono stati accusati da più parti di condurre scelte unilaterali, non ancorate alle decisioni dell’unico forum capace di legittimare tali scelte, spesso dolorose. Chi accusa gli Stati Uniti mente sapendo di mentire. Le Nazioni Unite sono l’ultimo prodotto dell’idealismo americano di matrice wilsoniana, ma vivono da sempre nell’eterna possibilità della paralisi, che però non avviene mai perché a nessuno Stato conviene paralizzare l’organizzazione.
In tutta la loro storia, solo in un caso vi fu unanimità nel decidere di avviare un intervento militare: nel 1990, in risposta all’invasione irachena del Kuwait. Ai tempi della Corea non vi fu unanimità, ché quell’intervento si decise grazie a una fictio giuridica, la temporanea assenza del rappresentante dell’Unione Sovietica. «Sorry Sir, where are the facilities? I need…».
Così fu approvata la missione per ristabilire la pace.
In Kosovo, molti anni dopo, la Nato agì senza avallo delle Nazioni Unite. Il Governo D’Alema ricorse all’equilibrismo verbale e politico. Fu vera guerra, benché intrapresa senza l’avallo delle Nazioni Unite, bloccate dalla minaccia di uso del veto da parte della Federazione Russa, alleata della Serbia.
L’art. 11 della Costituzione, secondo la lettura prevalente nell’intellighenzia italiana, doveva essere momentaneamente sospeso, perché altrimenti non si spiegano certi giustificazionismi filo-governativi. Ancor oggi è reperibile in rete (vera moderna biblioteca di Alessandria) un articolo del 14 aprile 1999 del quotidiano “la Repubblica” (http://www.repubblica.it/online/dossier/spini/spini/spini.html), in cui si comprende nitidamente che i mezzi dell’Aeronautica Militare della Repubblica Italiana furono impegnati in azioni di difesa integrata.
Difesa cosa? «”Difesa integrata” che, secondo le informazioni provenienti dalla base, è consistita in un attacco contro le difese radar dell’esercito jugoslavo in Kosovo», fu detto, con argomentazione non esplicativa. E si aggiunse: «Il ministero della Difesa ha spiegato il tipo di missione dei due bombardieri italiani: “I velivoli sono intervenuti in aree adiacenti alle zone confinarie contro obiettivi militari che nelle valutazioni dei comandi militari alleati costituivano reale minaccia alle forze armate, incluse quelle italiane, presenti nel teatro balcanico”, si legge in un comunicato, che prosegue elencando i casi in cui è legittimo l’impiego dei bombardieri italiani, vale a dire il concetto di “difesa integrata”: protezione dello spazio aereo italiano ed alleato e protezione dei velivoli e delle forze italiane ed alleate. “L’intervento si è reso necessario anche in relazione all’intensificarsi delle operazioni militari delle forze serbe in Kosovo e in particolare alle azioni offensive condotte nei confronti del territorio albanese”, conclude il comunicato del ministero della Difesa» (ibidem).
Insomma, in Kosovo c’era pure l’Aeronautica Militare Italiana che, in quanto difesa aerea (lo dice il nome…), difendeva gli aerei alleati da potenziali attacchi della contraerea, considerato che la contraerea serba non si limitava ad assistere – come avrebbe dovuto fare con generoso ed educato fair play – ma difendeva il territorio dalle incursioni aeree dell’Alleanza Atlantica. Mah…
Quella – in realtà – fu una guerra che si doveva fare per fermare il tentativo di genocidio della popolazione di etnia albanese del Kosovo, da parte delle forze serbe comandate da Slobodan Milosevic, Ratko Mladic e Zeliko Raznatovic (in arte Arkan…).
Così era stato al tempo dell’incursione Franco-Britannica in Sinai nel 1956, fermata con una deliberazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, unico esempio di superamento del veto opposto in Consiglio di Sicurezza dalle due potenze europee grazie all’accordo USA-URSS, che decretò la fine dell’influenza europea sul Vicino Oriente.
Così sarà, fino a quando non si prenderà atto che le regole poste all’indomani della Seconda Guerra Mondiale a tutela del ruolo delle cinque potenze vincitrici sono state erose dalla Storia. Così sarà fino a quando non si comprenderà che le Nazioni Unite corrono il rischio di diventare un pericoloso esercizio di stile, evocato dagli apprendisti stregoni e tiranni, con il supporto dell’ipocrisia, il più delle volte europea.
Così sarà fino a quando non si comincerà a pensare, in una strategia di medio/lungo termine, a qualcosa che assomigli ad un governo mondiale, in cui le regole della democrazia siano attenuate da un funzionalismo illuminato, lo stesso che ha fatto maturare il più grosso esperimento geopolitico mai tentato nella Storia europea: il processo di integrazione europea.
Almeno fino a che l’Umanità non sia matura per il vero cosmopolitismo umanista.
In tempi più brevi, va adeguato il funzionamento del Consiglio di Sicurezza e, in primis, riformato il diritto di veto, che si trasforma troppo spesso in diritto di inazione, improponibile di fronte alle sfide della “lobalizzazione”. Si pensi a una riforma che, lasciando transitoriamente questo totem antico, lo renda spendibile nella realtà di un sistema mondo che necessita di decisioni veloci, coerenti e produttive: per esempio, contingentando il diritto a utilizzare il veto, per quantità e materie di intervento.
Solo rendendo più efficace l’azione delle Nazioni Unite si ammorbidiranno gli istinti ad agire unilateralmente, cui possono ricorrere alcuni Stati per proteggere i propri cittadini e i propri alleati. Gli Stati Uniti hanno salvato l’Europa sicuramente per interessi geopolitici (cfr. Sergio Romano, Il rischio americano, Longanesi & C., Milano 2003, pp. 121-124), ma non si può negare che il legame transatlantico sia scritto con il sangue di coloro che lo hanno sacrificato per la libertà europea sulle spiagge della Sicilia o della Normandia, di coloro che ne condividono il codice genetico, al di qua ed al di là dell’Atlantico.
Taluni hanno paventato un allargamento dell’Atlantico: il rischio c’è, ma è solo un rischio artificioso, creato dalla cattiva politica e dalla cattiva coscienza di chi sa difendere i propri interessi, spacciandoli per azioni di difesa dei diritto internazionale.
Appellare l’intervento anglo-americano in Iraq come guerra preventiva, significa argomentare in modo scorretto la verità dei fatti e piegare la realtà, fatta di 75 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il più delle volte oltraggiate dal tiranno di Baghdad. Ci si è chiesti, nel passato, perché contro Hitler non si agì: gli storici del futuro avranno una preoccupazione in meno e si dovranno concentrare solo sui motivi di tanto ritardo, non già sull’inazione contro il regime baathista di Saddam Hussein.
4.2 L’Unione Europea
Ha ragione Sergio Romano quando riflette sull’irrilevanza dell’Europa (Ivi, p. 113), considerata la vera fonte «dello strapotere americano» (ibidem), e quando nota che una semplice operazione aritmetica, «la somma delle politiche estere dei singoli Paesi dell’Unione» (ibidem) non generi una somma di potere, ma una confusione di poteri (o di illusione di potere). Se però definiamo il potere come la capacità di agire, possiamo giungere alle radici dell’impotenza europea, lo Stato-Nazione in fin di vita.
Allora la «massa critica» (ibidem) di cui parla Romano non si potrà realizzare con riforme in apparenza strutturali, che hanno finito per complicare ulteriormente le pratiche di governo, hanno confuso i poteri, non hanno razionalizzato e non rispondono alla continua richiesta di esercizio dei poteri della sovranità che provengono dalla fonte ultima del potere, il popolo.
L’Europa – malata di retorica – può diventare «un utile protagonista della politica internazionale» (ivi, p. 127) solo se si abbatte l’ultimo piede del totem della sovranità nazionale, un totem virtuale, considerata la crisi irreversibile dello Stato nazionale europeo.
Al-Qaeda diventa attore significativo e, nello stesso momento, gli Stati nazionali europei sono insignificanti, in termini di capacità di agire sulla scena internazionale. Incapaci dal punto di vista economico, finanziario e monetario, perché stretti in un rigido Patto di Stabilità, che impedirebbe perfino agli Stati Uniti di entrare nel Club dei Virtuosi dell’Euro; incapaci dal punto di vista politico-istituzionale, impelagati nel gorgo della diplomazia e di una burocrazia europea che si fa gioco della democrazia.
Per tornare ad essere attori significativi, gli Stati dell’Europa hanno bisogno degli Stati Uniti d’Europa.
Solo lo Stato federale europeo può riequilibrare una vera asimmetria di sovranità, che consenta agli Stati nazionali di «ritrovare la capacità d’azione in quei campi in cui ogni Stato, agendo da solo, la perderebbe o, per essere franchi, l’ha già persa» (Johannes Rau, Presidente della Repubblica Federale Tedesca, La malattia della vecchia Europa, «La Stampa», 4 novembre 1999, intervento originario al Convegno organizzato dall’Institut français des relations internationales a Parigi, nei giorni 3 e 4 novembre 1999. Il testo è stato pubblicato il 4 novembre, contemporaneamente, dal Frankfurter Allgemeine Zeitung con il titolo “Una Costituzione federale per l’Europa”, da Le Monde, con lo stesso titolo, seguito da un punto di domanda e da La Stampa, in versione estremamente abbreviata, con il titolo “La malattia della vecchia Europa”: scaricabile qui).
Più che una Dichiarazione di Indipendenza, come auspicò il Presidente della Convenzione Europea Valery Giscard d’Estaing (cfr. Giscard per l’indipendenza UE: ma indipendenza da chi?), noi europei avremmo bisogno piuttosto di una Dichiarazione di Dipendenza dei Popoli e degli Stati dell’Europa, per dichiarare l’unione indissolubile dei destini europei.
Rischiamo la sottomissione a un potere imperialista oscurantista, che intende imporci una religione e un modo di vivere contrari alla nostra radice di uomini liberi.
Ecco perché non possiamo perdere la Quarta Guerra Mondiale (tema del prossimo e ultimo articolo).
© RIPRODUZIONE RISERVATA
(segue)
Il primo articolo è stato pubblicato il 23 Agosto 2014
Il secondo articolo è stato pubblicato il 29 Agosto 2014
Il terzo articolo è stato pubblicato l’11 Settembre 2014
Il quarto articolo è stato pubblicato l’11 Settembre 2014
Il quinto articolo è stato pubblicato il 16 Settembre 2014
Il sesto articolo è stato pubblicato il 23 Settembre 2014