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Motorsport, abitacoli delle monoposto chiusi? Rileggendo Michel Vaillant diciamo sì!

La FIA da tempo ha lanciato uno studio per verificare la possibilità di adottare un abitacolo chiuso, l’unica misura che potrebbe evitare le tragedie come quella che ha ucciso Justin Wilson domenica scorsa a Pocono. Cambierebbe la natura delle corse in monoposto? Ecco la nostra opinione, con un riferimento letterario al celeberrimo personaggio partorito dalla matita di Jean Graton

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“Motorsport is dangerous” viene affisso all’esterno degli autodromi britannici, come monito imperituro per identificare il più pericoloso – in teoria – degli sport: quello con i motori.

Ma la lotta tra pericoli e sicurezza è senza fine e oggi – a pochi giorni dalla morte di Justin Wilson a Pocono – riemerge il tema della opportunità di dotare le monoposto di un cockpit chiuso, delimitato da una protezione che impedisca al pilota di essere colpito da un oggetto e di rimetterci la pelle.

Lo diciamo senza girarci attorno: anche rileggendo un classico dei fumetti, Michel Vaillant, non possiamo che dire senza esitazioni: “sì!”

La morte di Wilson è una ferita aperta e una croce nel cuore degli appassionati di motorsport, ma si tratta dell’ennesimo episodio luttuoso che si aggiunge a tanti altri. Forse alcuni evitabili. Le modalità  dell’incidente del povero pilota britannico possono farci pensare che l’adozione di un abitacolo chiuso ne avrebbe protetto la vita.

Ma al di là del dato contingente, è opportuno evidenziare che nelle monoposto la testa del pilota rimane oggi la parte più esposta in caso di incidente. Avremmo facile gioco a dire “l’avevamo detto”, anche con qualche dose di facile preveggenza, quando all’inizio della stagione di IndyCar avevamo criticato il proliferare di ali e alette, che in caso di impatto avrebbero potuto trasformarsi in proiettili pericolosi, soprattutto nei circuiti ovali senza vie di fuga. Ma non è questo il punto.

Il punto è che la ricerca della sicurezza passiva non può fermarsi e che la vulnerabilità dell’abitacolo delle monoposto è un tema all’ordine del giorno. Tanto si è fatto, tanto si farà ancora, ma la domanda cui la FIA sta cercando di trovare risposta è se chiudere o meno i cockpit e come farlo.

Ci sono due correnti di pensiero al riguardo: la proposta Mercedes – con una protezione tipo roll-bar innalzato – e quella che prevede la chiusura dell’abitacolo con un cupolino di derivazione aeronautica.

La proposta Mercedes sembra poco consistente. Nel caso di incidente come quello accaduto nel 2009 a Felipe Massa all’Hungaroring, la testa del pilota resterebbe comunque scoperta. Sarebbe una soluzione utile per incidenti con gomme che volano o pezzi più grossi. E infatti la Mercedes definì questa proposta dopo l’assurdo crash di Bianchi in Giappone nel 2014.

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La seconda soluzione sarebbe chiudere il cockpit con un cupolino di derivazione aeronautica, come quello adottato dai jet militari. Comporta la soluzione di altri problemi, per esempio come renderlo sicuro in caso di pioggia, di ribaltamento o nel caso servisse a ‘prelevare’ il pilota in modo celere (esempio: per incendio della monoposto).

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Lo studio della FIA verte proprio su questi aspetti: come rendere funzionale e sicuro questi cupolini, queste coperture ‘blindate’, capaci di resistere all’impatto di elevata potenzialità distruttrice.

Certo, chiudere gli abitacoli delle monoposto sarebbe un passo rivoluzionario, forse chiuderebbe un’epoca e metterebbe fine a un certo modo di intendere le corse in monoposto.

Ma è veramente questo il problema, la nostalgia per il ‘bel tempo andato’? Non volere cambiare a tutti i costi le automobili da corsa, perché così sono nate, e lasciare inalterate le forme delle monoposto, anche a discapito della sicurezza passiva possibile?

Noi pensiamo al contrario che sarebbe il caso – affrontate le criticità preventivabili – di chiudere gli abitacoli, abbandonando ogni tentazione di resistere alla nostalgia, visto che in gioco c’è a vita della gente e – nella fattispecie – di gente che corre in macchina per professione, ma anche per divertimento, senza però votarsi al sacrificio del bene, la vita.

Siamo pervenuti a questa convinzione ancor di più quando ci siamo ritrovati per le mani uno dei fumetti più celebri della storia delle letteratura di stampo sportivo, quella di Michel Vaillant edita nel 1978 e dal titolo “Un certo gran premio” (titolo originale “Un certain Grand Prix”, nell’album fuori serie “20° Anniversaire”, ripubblicato in Italia nel 1988).

Dalla matita di Jean Graton – francese di Nantes, poi belga di adozione e alla veneranda età di 92 anni residente oggi in Portogallo – fu partorita la una storia di F1 ambientata negli anni 2000, dove i circuiti erano super sicuri, così come le monoposto che… avevano il cockpit chiuso!

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Da questo fumetto è partita la nostra riflessione. Come già avvenuto nella storia della fantascienza, in cui la fantasia degli sceneggiatori ha anticipato soluzioni tecniche oggi di uso comune (si pensi ai videotelefoni o alle tavolette di trasmissione video della serie ‘Spazio 1999’, anticipatori degli smartphone e dei tablet oggi di uso ordinario), proprio Jean Graton sognò per il pilota più grande di tutti i tempi, Michel Vaillant, monoposto chiuse e sicure. Suggerimenti che dovrebbero arrivare oggi ai tecnici della FIA, che stanno studiando come applicare alla realtà i principi partoriti da quella mente febbrile e appassionata di motorsport.

La preveggenza di Graton è in qualche modo incredibile, considerando che all’epoca in cui fu pubblicata la prima volta questa storia – il 1978 – le frontiere della tecnica applicata alla F1 non facevano presagire l’adozione della trasmissione automatica o di altri accorgimenti tecnici. Il desiderio del maestro franco-belga era non già di dar prova di abilità stilistica, ma quello più nobile di proteggere i piloti. Piloti che Graton fin dalla giovinezza conobbe e frequentò, poi ritrasse e ripropose nelle sue storie permeate di passione per i motori, ma anche di dolore per quei conduttori che aveva visto morire (sia nella realtà che nella fantasia narrata nelle sue strisce).

Così come noi abbiamo visto tanta bella gente volare via in modi diversi: e ci mancano tutti e tanto. Un ricordo che ci spinge a perorare l’adozione degli abitacoli chiusi, con l’auspicio di arrivare prima possibile alla soluzione del rebus su quale sia la soluzione migliore per proteggere la vita dei nostri ‘eroi’

Penseremo a te, Justin Wilson, e a Henry Surtees, il diciannovenne figlio del mitico John, perito a Brands Hatch il 19 Luglio 2009 colpito dalla gomma posteriore sinistra della monoposto di Jack Clarke. E a quanti – come meno esitazioni decisionali – sarebbero qui con noi a commentare un passo positivo nell’infinita corsa per la sicurezza nel motorsport.

(con la collaborazione di JH) © RIPRODUZIONE RISERVATA – THE WASTEGATE – SI RINGRAZIA L’AMICO DANIELE SANFILIPPO PER IL RENDER DELLA FERRARI

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