Agnese Borsellino, una combattente con il sorriso arrabbiato

La famiglia: una perdita che ha una dimensione prima di tutto familiare. La Fondazione Progetto Legalità in memoria di Paolo Borsellino: non ha mai smesso di chiedere, insieme ai figli, che sia fatta verità e giustizia

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Palermo – Era ammalata da tempo, Agnese Piraino Leto Borsellino, ma non ha mai smesso di chiedere la verità a uno Stato per cui il marito Paolo ha donato il proprio bene più importante: la vita. Oggi, alle 9.30 nella chiesa di S. Luisa di Marillac l’ultimo saluto di chi le ha voluto bene. Lo stesso tempio cristiano in cui fu salutato Paolo Borsellino.

Dopo quasi ventuno anni, ricordo con amara nitidezza quella maledetta domenica del 19 luglio 1992. Mi ero appisolato, mentre facevo zapping in modo nervoso da un canale all’altro. Domenica senza Formula 1, che noia. Fui smentito.

Non mi sono mai chiesto se avessi avuto un presentimento, ma ricordo che la mia irrequietezza non mi parve in contraddizione con quelle due righe sulla pagina “Ultimora” del Televideo Rai, di cui sono stato avido (e fastidioso, per chi mi sta accanto) consumatore fino all’arrivo di internet. “Esplosione in via Autonomia Siciliana. Lunga colonna di fumo”. Pensai subito a Giuseppe Ayala, che abitava in un residence in quella zona. Poi venne fuori la via d’Amelio, che conoscevo bene. Andavo, di tanto in tanto, a mangiare dei succulenti panini, proprio all’angolo con via Autonomia Siciliana. Sapevo chi ci abitasse e devo confessare che sperai fossero stati colpiti i familiari di Borsellino, che era una risorsa del bene in Terra. Compresi presto la realtà e non mi staccai più dalla televisione. Per l’ennesimo orrore.

Mio fratello studiava farmacia, collega di Lucia Borsellino. Era a Palermo, lo chiamai, mi confermò quel che già immaginavamo. Poi, ore dopo, mi riferì della scena di guerra, con poche parole, impastate di dolore, rabbia impotente e disillusione di poter vivere in un posto normale.

Il mio ricordo del sorriso e del viso pulito della signora Agnese è legato, oltre che alle manifestazioni pubbliche, a un incontro fortuito in una pizzeria di Via Bara all’Olivella, di fronte al Teatro Massimo, diversi anni dopo. Era seduta, in una lunga tavolata, accanto al neo prefetto di Palermo, Achille Serra, allora un poliziotto dalla fama di duro. Esibiva un sorriso aperto, quasi sfrontato, apparentemente dissonante con il dolore che – nella nostra cultura tribale – una moglie non deve abbandonare mai. Ignoranza crassa. Però avvertii quella presenza in modo diverso, quel sorriso esibito come una dichiarazione pubblica di resistenza, un atto insolente della società civile verso quella incivile, criminale, assetata del sangue della Sicilia come un’orda di vampiri sulle proprie prede. Un sorriso arrabbiato per combattere contro l’inciviltà.

Allora ero infervorato delll’idea di partecipare alla lotta antimafia e, per questo, mi ero fiondato con serietà e produttività sugli studi universitari, dopo aver perso molto tempo per inseguire sogni sportivi senza però prendermi la responsabilità della scommessa vera e del sacrificio, costasse pure dormire per terra e mangiare quel che capitasse. I grandi sogni non si inseguono con i soldi guadagnati dagli altri (peraltro mai avuti dalla mia famiglia: mio padre, pilota in gioventù, non mi seguì mai). Le stragi del 1992 mi avevano spinto verso quella direzione. Un cugino di mio padre chiese inutilmente di essere trasferito a Palermo, da Imperia dove era vice-questore, per partecipare alla “battaglia”. Dopo il diniego, se ne andò in pensione.

Al governo di Massimo D’Alema (che cambiò i limiti d’età degli uomini per la partecipazione a certi concorsi pubblici) forse devo la vita, ma alle parole di Leonardo Sciascia, “rivisitato” in età più matura, devo la disillusione che la Sicilia possa diventare mai una terra normale, liberata dal cancro vischioso della criminalità organizzata. Redimibile.

La Sicilia, con metodi democratici e con onestà intellettuale, è irredimibile, a dispetto degli autoproclamati cavalieri della legalità, i quali, in nome di un valore che dovrebbe essere esercitato prima che declamato, impazzano per le vie della Trinacria, spargendo il loro verbo, nella migliore delle ipotesi irretendo come il pifferaio di Hamelin.

Dal 1992 i passi fatti perché si potesse prendere coscienza del pericolo di quest’edera maledetta che infesta i balconi della Sicilia sono stati molti, ma il dato statistico dimostra che l’antimafia delle parole ha prodotto solo per chi è salito sul carro dei retori. Negli ultimi 24 mesi, quasi il 20% della popolazione siciliana ha lasciato l’Isola, un’emigrazione diversa da quella degli anni 60 e 70 per qualità del retroterra formativo: professionisti, insegnanti, imprenditori, ricercatori, in midollo osseo di una potenziale rinascita della colonna vertebrale etica di questa summa di tutto il creato che è la Sicilia. Un tesoro trattato da chi la abita come una fetida latrina. Un’emigrazione che ha il sapore indigesto dell’impotenza, della sfiducia e della di-sil-lu-sio-ne!

Ho aspettato che svanissero la rabbia, lo sconforto, la partecipazione emotiva prima di scrivere un saluto alla moglie, compagna, amica, confidente e pilastro della vita di un grande siciliano perbene, Paolo Borsellino. Molti di coloro che oggi lo chiamano “il nostro Paolo” non esitarono a bollarlo come “fascista”, insieme a quell’altra persona integerrima di Pippo Tricoli, il professore universitario amico con il quale Borsellino passò le ultime ore di quella maledetta domenica.

Le sia lieve la terra, Donna Agnese. Porti il saluto delle persone oneste a suo marito e a tutti gli uomini perbene che hanno lasciato, sul banco della roulette di un sogno di normalità, la posta più alta. Infonda da Lassù a tutti noi – e a me per primo – quella fiducia in un futuro diverso, migliore, normale per la terra che amiamo e odiamo con la stessa intensità, come avviene per tutti gli innamorati disillusi, feriti, vilipesi. E ci aiuti a saper distinguere i falsi profeti dai sacerdoti sinceri, perché la dissimulazione – la Taqiyya islamica – sembra essersi affermata anche qui. In nome della lotta alla mafia che spesso si mostra come una farsa.

Requiem Aeternam

IL SILENZIO FUORI ORDINANZA (di Ninì Rosso), suonato da Melissa Venema orchesta diretta da André Rieu, Maastricht 2008

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