La riforma presidenziale non risolve i problemi di governabilità dell’Italia. Serve “La Grande Riforma”, ma non con la “Commissione dei 40”

La procedura di riforma della Costituzione scelta dal governo di larghe intese è discutibile e forse anche illegittima: nessuno ha votato per la “straordinaria amministrazione”

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I partiti che sorreggono le sorti del governo di larghe intese avrebbero trovato l’accordo per trasformare l’Italia in una repubblica presidenziale (o semi presidenziale, ancora non si è capito), con un riferimento preciso alla “forma di governo”, non alla “forma di Stato”. Invece i due ambiti sono strettamente connessi, come sa il più ignorante degli studenti universitari, caduto nella rete della più semplice domanda del proprio docente di diritto pubblico o di diritto costituzionale: “mi dica la differenza e i rapporti tra forma di Stato e forma di governo”.

A chi ha un minimo (sindacale) di conoscenza in materia costituzionale non sfugge invero che «i due concetti sono intrinsecamente legati tra loro, nel senso che una determinata forma di governo si riverbera sulla forma di Stato e viceversa» (fonte: “treccani.it”). Al contrario, sembra che in Parlamento l’ignoranza regni sovrana, ma a volte quest’ignoranza sembra sintetica, esibita ad arte, come per non pagare dazio alla verità dei fatti.

Per forma di Stato si deve «indicare i diversi modi attraverso i quali si combinano i tre elementi costitutivi dello Stato: popolo, territorio e governo. In quest’ottica, lo studio delle forme di Stato riguarda solo quella peculiare forma di aggregazione politica che si afferma a partire dal XVI secolo (dalla Pace di Westfalia che mise fine alla Guerra dei Trent’anni, momento da cui prende forma lo “Stato moderno”, inteso quale ordinamento giuridico territoriale e sovrano, ndr)». All’interno della forma di Stato si distinguono ancora due diversi profili: il primo riguarda il rapporto tra governanti e governati, il secondo la ripartizione verticale del potere. Sotto il primo profilo si possono distinguere ancora lo Stato monarchico (regno) e la Repubblica. Sotto il secondo profilo, lo Stato Unitario e lo Stato Federale.

La “forma di governo” invece riguarda il rapporto tra il governo, uno solo dei tre poteri dello Stato (esecutivo, legislativo e giudiziario), e le modalità in cui vengono esercitate le forme di indirizzo politico che si estrinsecano nell’attività esecutiva, nell’amministrazione di un dato territorio regolato da un dato ordinamento. A tal proposito, ci sono almeno tre correnti di pensiero sulla distinzione tra forme miste e forme pure di governo, ma in questa sede prendiamo in considerazione quella che considera forma pura di governo quella che si concreta in una rigida separazione dei poteri (governo presidenziale, monarchia costituzionale e governo direttoriale), mentre forma mista quella in cui c’è qualche forma di coordinamento e intercessione tra i poteri (governo parlamentare, assembleare e semipresidenziale).

L’Italia è una repubblica parlamentare, ossia uno Stato che ha al vertice una persona eletta all’esercizio dell’ufficio presidenziale in via transitoria, per un periodo limitato, ma che si muove in rapporto elastico (come si è visto negli ultimi 20 anni) con il governo, l’organo costituzionale cui è demandato l’esercizio del potere esecutivo, che però dipende dalla fiducia del Parlamento (potere legislativo). Diversi sono i rapporti e le influenze tra poteri, ne citiamo solo alcuni (a parte il vincolo fiduciario, di cui s’è già detto): la controfirma presidenziale dei decreti del governo; la controfirma del capo del governo sugli atti del Presidente della Repubblica; la funzione di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di rilevanza costituzionale di autogoverno dei magistrati e dei giudici, esercitata dal Presidente della Repubblica; l’elezione di membri del CSM e della Corte Costituzionale (a tempo) da parte del Parlamento; la nomina di giudici costituzionali da parte del Presidente della Repubblica; il coordinamento della Sanità pubblica da parte del governo nazionale, ma l’esercizio dei poteri (anche di spesa) da parte delle singole regioni, frutto della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione di qualche anno fa.

Come si può capire, la crisi delle istituzioni italiane è lo stallo di funzionamento di uno Stato moderno solo in teoria, ma incrostato di lacci e lacciuoli assembleari. La crisi della classe dirigente ne è solo un grave indice, perché la selezione dei politici e dei pubblici amministratori risente della crisi organizzativa dei poteri statali.

L’assemblearismo sostanziale sta dunque uccidendo l’Italia, questo il dato centrale della crisi nazionale che riverbera i propri nefasti riflessi sul “Condominio Europa”, indeciso se cementare questa convivenza storica in un epocale matrimonio di interesse (e di comune radice culturale, piaccia o meno, ancorché di varietà linguistica).

A questo situazione, le forze politiche uscite dalle elezioni generali dello scorso febbraio (che sostengono il Governo Letta) intendono rispondere una riforma disegnata da una “Commissione dei Quaranta”, una scimmiottatura della Commissione dei Settantacinque del 1946 per almeno due motivi.

Il primo è che l’Assemblea Costituente fu eletta con lo scopo manifesto di riscrivere la Costituzione (che esisteva già, lo Statuto Albertino) e adattarla al mutato indirizzo emerso dal referendum istituzionale, con cui il popolo italiano espresse il proprio favore per la repubblica, relegando la monarchia ai libri di storia (e prima ancora a un indecoroso e vergognoso esilio: lo diciamo da convinti repubblicani). Non risulta che il 24 e 25 febbraio scorso il popolo italiano sia stato chiamato a eleggere un’Assemblea Costituente che avesse il compito definito di modificare in modo profondo la Costituzione.

Il secondo, connesso al precedente, è che la “Commissione dei Quaranta” non avrà alcuna legittimità costituzionale a modificare l’assetto dello Stato italiano, per revisionare in modo profondo la seconda parte della Carta del 1948.

All’Italia servirebbe, al contrario, una riforma profonda dell’assetto istituzionale, che andrebbe modificato sia nella forma di Stato da unitario a federale, fondato sul principio di sussidiarietà; sia nella forma di governo, con l’adozione di una forma presidenziale pura, bilanciata da istituzioni federali a livello parlamentare e da una magistratura indipendente nella parte giudicante.

Ma per compiere questo storico passaggio (che renderebbe le istituzioni italiane pronte ad aderire a un progetto costituzionale sovranazionale europeo, le cui istituzioni embrionali sono già informate in teoria secondo il principio di sussidiarietà) occorrerebbe che il Parlamento italiano avesse uno specifico mandato popolare, che invece non per la XVII Legislatura, né avrà la “Commissione dei Quaranta”.  Occorrerebbe eleggere un’Assemblea Costituente e un gruppo ristretto che riscrivesse la Costituzione.

Se questo passaggio rilevante sotto il profilo giuridico costituzionale, a parte la confusione tra ignoranti e sapienti (a livello parlamentare) l’unico effetto evidente sarà quello di mettere nei guai i docenti universitari di diritto pubblico e costituzionale, i quali non potranno più pretendere una risposta complessa alla domanda di cui sopra – “mi dica la differenza e i rapporti tra forma di Stato e forma di governo” – perché la risposta del più ignorante degli studenti sarà facile: “basta l’accordo della maggioranza del Parlamento e si può decidere tutto quel che si vuole”. Con buona pace di anni di insegnamento, sforzi dottrinari, studi, convegni e impegno professionale. Amen.

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